Quell’ortica che spunta dalle democrazie in declino

coverVengono raccolti per la prima volta, in un’unica opera, i Quaderni politici del Partito d’Azione, il piccolo partito antifascista che, con le sue diverse anime, fu alla base della cultura democratica italiana nata dalla Resistenza. A dare alle stampe, in due volumi, quegli scritti clandestini, pubblicati tra il giugno 1944 e il febbraio-marzo 1946, è Il Settimo Libro (www.ilsettimolibro.it), una casa editrice appena nata a Brindisi per volontà di Gianluigi Capurso, giornalista che ha deciso di diventare editore (Capurso ha scritto per il “Panorama” diretto da Sechi, per “L’Espresso”, per il “Giornale” diretto da Montanelli ed è stato una firma di punta del “Secolo XIX” di Genova, seguendo tra l’altro la caduta dell’Unione Sovietica).
Per riunire i Quaderni è stato necessario un paziente lavoro di recupero e di classificazione filologica. E il risultato principale, a parte il valore antologico e storico, sta nella restituzione di una “materia” politica che si mostra ancora viva, ribollente, ancorché a tratti conflittuale nelle proposte. Nella prefazione di Adolfo Battaglia si sottolinea infatti che la preziosità della raccolta sta proprio, preliminarmente, nella possibilità di ritrovare nei Quaderni “tutte le diverse anime” del Partito d’Azione: “E appare più chiara la diversità fra le tesi ‘socialiste’ di Emilio Lussu e Federico Comandini, e quelle opposte, ‘democratiche’, di Riccardo Bauer, Manlio Rossi Doria e Ugo La Malfa; ancora differenti, poi, da quelle ‘liberalsocialiste’ di Guido Calogero e da quelle ‘gielliste’ di Aldo Garosci. Mentre Francesco Fancello e Oronzo Reale, in vario modo, tentavano da parte loro amichevoli componimenti” (e dall’elenco mancano Balbi, Dorso, Jemolo, Momigliano, Omodeo, Parri).
immagine-lussuQui di seguito, pubblichiamo alcuni brani del primo Quaderno dal titolo “La ricostruzione dello Stato” di Emilio Lussu, una delle voci più potenti delle vicende nazionali della prima metà del ‘900, interventista e autore di “Un anno sull’altopiano” (uno dei capolavori letterari dedicati alla Prima Guerra Mondiale), fondatore insieme a Carlo Rosselli di Giustizia e Libertà, partigiano e parlamentare della Costituente. L’opuscolo firmato da Lussu apparve clandestinamente in Francia nel giugno del 1943 e fu ripubblicato in Italia, sempre clandestinamente, nel giugno del 1944.
Sono passati, da allora, esattamente settant’anni. Lussu scrive nel pieno della guerra e della pressione nazista, con un fascismo quasi alle corde a Roma ma destinato a sopravvivere tragicamente, con l’appendice di Salò, per alcuni mesi. La lucidità dell’analisi di Lussu è sconcertante: vi è la visione dello storico mentre il presente incombe con un destino ancora sanguinoso e incerto. E’ un documento straordinario. E c’è una frase di Lussu che vale ancora da ammaestramento quando le democrazie inconcludenti cominciano a zoppicare o declinano. Il fascismo, scrive Lussu, non è un bolide piovuto dal cielo: “E’ l’ortica spuntata dalle rovine della democrazia italiana”.

di Emilio Lussu

Il fascismo non è, come alcuni liberali tradizionalisti amano credere, una svolta improvvisa nel corso della civiltà del nostro paese. Né, come la letteratura degli esuli era portata a sostenere di fronte a un pubblico straniero, un male che il popolo italiano non meritava. Il fascismo non è caduto dall’alto, come un bolide. Esso è stato il prodotto naturale della civiltà politica italiana, una malattia del popolo italiano, formatasi nel suo organismo e nel suo sangue. E’ stato la conseguenza del passato.
Se su questa critica fondamentale non si concorda, è difficile pensare si possa essere d’accordo nel ricostruire l’Italia.
Il fascismo è il prodotto delle forze reazionarie che hanno costantemente influenzato l’Italia fin dalla sua unità, malgrado le aspirazioni liberali. Mussolini è la ripetizione riveduta e migliorata ed aggiornata del fenomeno Crispi alla fine del secolo scorso. Vittorio Emanuele II è la ripetizione anch’essa aggiornata, di re Umberto. La reazione e la monarchia non si sono smentite.
Il re si sentiva veramente padrone in casa sua. In altri paesi, altri re hanno giocato la testata, e pagato con la medesima, l’attentato alle libertà popolari. Da noi, la decadenza e la corruzione delle forze politiche della democrazia hanno creato l’ambiente favorevole. Come uno squadrone bene ordinato di corazzieri, i grandi dignitari dello Stato, e i grandi burocrati, e i prefetti, e i consiglieri provinciali, e i sindaci, e i consiglieri municipali, tutti liberali e democratici, hanno accolto il colpo di Stato monarchico che ha preso il vistoso nome di “marcia su Roma”, al grido fatidico di “Viva il Re!”. Lo stesso Aventino ha gridato a perdifiato per sei mesi “Viva il Re!”.
Non è per un accidente inspiegabile che il capo incontestato del liberalismo italiano, anzi la sua più fedele incarnazione, Giovanni Giolitti, è stato la levatrice patentata del fascismo. Lo stesso partito del proletariato e dei lavoratori italiani, il solo cui, in ultima istanza, spettava storicamente il compito di spazzare dalle piazze le camicie nere e le azzurre, era uscito dai trionfi elettorali del dopoguerra, idropico, diviso e senza senso politico. E fu incapace all’urto.
Il fascismo è l’ortica spuntata dalle rovine della democrazia italiana. Le responsabilità sono generali, in rapporto alle iniziative, alle complicità e alle deficienze di ciascuno. Azione positiva quella delle forze reazionarie che hanno pagato lo squadrismo e finanziato la grande avventura, in testa la borghesia industriale e rurale; azione negativa quella della democrazia decadente. Esse investono tutta la vita dello Stato nel dopoguerra.
Il fascismo va debitore del suo trionfo e a quanti l’hanno sostenuto per arrivare al potere, e a quanti, arrivato al potere, l’hanno difeso, consolidato e glorificato, sì da farlo apparire come l’espressione storica delle aspirazioni nazionali.
Fra questi ultimi stanno in primo piano non pochi ambienti politici responsabili di paesi stranieri, che nel fascismo individuavano, con gioia, la espressione più moderna delle forze dell’ordine; e il papato. Di fronte alla moltitudine dei cattolici dell’Italia e del mondo, fino ad allora avversi ad una dittatura nata e vivente nel sangue, il papato, accordandosi clamorosamente col fascismo, ha asservito la religione al regime. Non v’era più dunque ragione di rivolta morale.
Il fascismo è strettamente legato al passato; rompere col fascismo significa pertanto rompere col passato. Pretendere, come più d’un’anima quieta fa, di ritornare all’Italia del 1922, è così assurdo come pensare di ritornare all’Italia del 1831 o del 1848.
La ricostruzione sarà pertanto complessa, poiché non si tratterà di ricopiare, ma di creare. Il problema non è di sostituire, al governo, il partito fascista con un altro partito o con un’alleanza di partiti: il problema è la ricostruzione radicale dello Stato. Con Mussolini non crolla il capo di un partito; è tutto un regime che crolla. Si tratta dunque di sostituire, al vecchio regime un nuovo regime. La parola è vecchia: si tratta di creare un ordine nuovo.
La monarchia italiana è finita. Non il re, solo, ha tradito l’Italia, ma la monarchia. L’abdicazione del re non può dunque risolvere la crisi. Il re, il principe ereditario, e tutta la costellazione di principi di Casa Reale, sono tutt’uno. La dinastia sabauda si è estinta vestendo la camicia nera.
Teoricamente, la monarchia è possibile in Italia, alla condizione che sia portato sul trono un principe straniero. Ma, per quanto il popolo italiano sia caduto così in basso, esso non si avvilirà mai al punto di accettare con rassegnazione un simile dono. L’ipotesi di un principe straniero sul trono italiano non è meno assurda dell’ipotesi di un qualsiasi principe sabaudo, erede dinastico. Conservare sul trono un Savoia, qualunque Savoia, equivarrebbe a sostituire Mussolini con Ciano, o con Farinacci, o con Bottai, o con Grandi, o con De Vecchi, o con De Bono. Il consiglio di reggenza, per un principino figlio di principe, sarebbe la più strana di tutte le ipotesi: i suoi membri bisognerebbe prenderli fra i generali inglesi, americano, o russi.
Nell’impossibilità che si avrà di salvare la corona con un Savoia, noi correremo il rischio di assistere persino alla candidatura, a causa della successione del reame di Napoli, di uno dei cento principi borbonici, scovato in una boîte di mercato nero, a Parigi o a Vienna. E la vecchia gloriosa reazione italiana, dura a morire, sosterrebbe anche quella, in mancanza di meglio.
L’Italia è ormai entrata nel numero di quei paesi in cui la monarchia sarebbe un anacronismo infamante o ridevole.
Quando noi sentiamo Carlo Sforza, discendente di una famiglia regnante, imparentato con case reali, che ha passato tutta la sua carriera di diplomatico a contatto con re e principi, collare dell’Annunziata per giunta, porre, alla sua coscienza d’italiano libero, che intende vivere senza macchia, la pregiudiziale repubblicana, bisogna concludere che solo la peggiore parte del paese, moralmente la più indegna e politicamente la più pericolosa, si fa ancora sostenitrice della monarchia in Italia.
Una repubblica vale una monarchia, e può valere anche meno, se essa non trasforma fin dalle radici la vita del paese, in ogni campo, e non la eleva. Se non si suscitassero nuovi valori morali e ideali, avremmo una repubblica ludibrio dell’Europa. La repubblica presuppone la totale rovina dello Stato fascista,
Lo Stato fascista non si modifica né si adatta, come ha fatto docilmente lo Stato liberale. Lo Stato fascista può essere solo distrutto, in tutta la sua struttura politica, sociale, culturale, militare-poliziesca. Il compito degli italiani liberi non è quello di conquistare lo Stato fascista e di trasformarlo in Stato democratico, più o meno gradualmente, ma di distruggere e di ricostruire, ex novo, lo Stato democratico.