Esce in Italia “Jugaad Innovation”, pubblicato da Rubettino. Un libro rivoluzionario, che ha avuto un enorme successo all’estero. Jugaad è una parola che in hindi descrive un processo di innovazione che proviene dal basso ed è in grado di creare soluzioni efficienti a costi contenuti, una vera e propria “rivoluzione culturale” che sfida i modelli di produzione dell’Occidente.
Come si racconta nel libro, molti CEO di grandi aziende spingono i dipendenti a liberare la loro creatività e a inventare modi frugali e sostenibili per dare un significativo valore aggiunto agli stakeholders, usando meno risorse naturali e risparmiando capitale della compagnia. Grazie ai numerosi case studies riportati, “Jugaad Innovation” costituisce un vero e proprio “manuale di sopravvivenza” per le aziende occidentali e un viaggio nei meandri dei mercati emergenti. L’edizione italiana di Rubettino è a cura di Giovanni Lo Storto e Leonardo Previ. La prefazione è di Federico Rampini, una delle firme più prestigiose di “Repubblica”, grande conoscitore, oltre che degli Stati Uniti e della Cina, dello straordinario universo indiano. “In questo periodo – scrive Rampini – non è facile convincere un italiano che noi abbiamo qualcosa da imparare dall’India contemporanea. Questo saggio sull’innovazione Jugaad è il modo migliore per provarci, prendendo in contropiede pregiudizi e stereotipi”. Pubblichiamo un ampio estratto della prefazione.
di Federico Rampini
La prima volta che mi sono imbattuto in una innovazione Jugaad, questa aveva l’aspetto dimesso di un elettrodomestico low cost. Per la precisione una lavatrice da cinquanta euro, della marca Videocon. Un apparecchio plebiscitato dalle massaie indiane non solo per il basso costo, ma per un altro aspetto che lo rende prezioso: una speciale memoria elettronica programmata per neutralizzare i blackout elettrici, e consentire al programma di lavaggio di riprendere indisturbato là dove si era interrotto, non appena la corrente torna (magari molte ore dopo). È un esempio emblematico.
Si tratta di un’innovazione stimolata da due ostacoli, due difficoltà: il basso potere d’acquisto da una parte, l’inaffidabilità dell’energia elettrica dall’altra. Due anomalie indiane, a prima vista? In realtà quel tipo di innovazione Jugaad si rivela perfettamente adatta a rispondere ai bisogni e alle restrizioni di una vastissima platea di consumatori: il ceto medio delle nazioni emergenti. Un ceto medio molto meno abbiente del nostro. E tuttavia desideroso di affacciarsi ai primi comfort moderni che sono gli elettrodomestici, l’automobile o la moto, il turismo di massa, l’istruzione avanzata, e così via.
È nella piccola borghesia asiatica, latinoamericana, sudafricana, che ci sono le prospettive di crescita dei consumi più forti nei prossimi decenni. Nessun’azienda che voglia fare strategie di medio-lungo periodo, può ignorare quel formidabile serbatoio di potenzialità. Inoltre un effetto della Grande Contrazione iniziata nel 2008, è che anche nei Paesi avanzati dell’Occidente siamo in una fase di stagnazione del potere d’acquisto. Di conseguenza i temi del “consumo frugale” sono attuali anche per noi, non solo per il ceto medio cinese o indiano, brasiliano o sudafricano. Ecco perché negli Stati Uniti e in Inghilterra ha ricevuto tanta attenzione questo saggio, che spiega agli occidentali che cos’è l’innovazione Jugaad e quanto può essere utile anche per noi.
Jugaad è un vocabolo hindi (o anche urdu, l’idioma-gemello dell’hindi usato in Pakistan), indica un’idea che serve a risolvere rapidamente un problema. Spesso è una scorciatoia, un espediente improvvisato per aggirare un ostacolo. Evoca quella che per noi italiani è l’arte di arrangiarsi: la necessità di usare l’ingegno per sopperire alla mancanza di risorse, all’inefficienza, ai mille ostacoli di una realtà arretrata. C’è anche un oggetto specifico che in India viene chiamato Jugaad: è una sorta di camion, diffuso nelle zone rurali più povere, che viene assemblato dai falegnami montando un motore diesel su un vecchio carro-buoi. I tre autori di questo libro sono di origine indiana, conoscono bene quel Paese, ma hanno avuto brillanti carriere in Occidente. Navi Radjou fa il consulente strategico nella Silicon Valley californiana. Jaideep Prabhu è docente alla Business School di Cambridge in Inghilterra. Simone Ahuja è un’imprenditrice, fondatrice della sua società di consulenza, con sedi a Minneapolis negli Stati Uniti e a Mumbai in India. È stata anche la produttrice di un fortunato documentario televisivo sui temi dell’innovazione. Una tesi centrale del loro saggio è quella che l’innovazione di tipo Jugaad, creativa e al tempo stesso frugale, non è utile solo nelle nazioni emergenti. Dobbiamo fare prova di umiltà, e impararne gli ingredienti anche noi: vuoi perché il futuro delle nostre imprese e delle nostre economie dipende dalla nostra capacità di interpretare i bisogni delle nazioni emergenti; vuoi perché noi stessi siamo entrati in un’Età Frugale e i consumatori dei Paesi occidentali hanno bisogno di risposte nuove ai loro bisogni.
I tre autori cominciarono a studiare il modello indiano e quello di altre nazioni emergenti tanti anni fa, in cerca di quella strategia alternativa all’innovazione. Un conto è fare ricerca e sviluppo in un laboratorio modernissimo, ricco di fondi, nella Silicon Valley. Altro è tentare di innovare in mezzo al caos, all’imprevedibilità di una società emergente come quella indiana, o brasiliana. E tuttavia alcune delle innovazioni nate in quei contesti hanno avuto una diffusione vastissima e rapida: perché le nuove tecnologie digitali hanno abbattuto barriere e distanze, consentendo all’idea vincente di viaggiare con la velocità della luce. La soluzione che si adatta ai bisogni della massaia indiana è la stessa che può conquistare istantaneamente centinaia di milioni di consumatrici africane. L’innovazione Jugaad nasce da un rovesciamento di approccio: la scarsità di risorse, gli ostacoli economici, la mancanza di infrastrutture, la burocrazia inefficiente, si trasformano in opportunità perché diventano altrettanti stimoli. Le soluzioni Jugaad sono prodotti o servizi semplici, essenziali. I consumatori meno abbienti non sono più visti come un mercato minore, o addirittura come popolazioni da aiutare con sussidi e carità, al contrario diventano un motore di sviluppo.
Ratan Tata, patriarca dell’omonima dinastia che è uno dei maggiori imperi economici indiani, diede a modo suo un’interpretazione della Jugaad. Nella ricerca del profitto il gruppo Tata spesso guarda alla parte bassa della piramide sociale, vuole inventare prodotti e servizi adatti a Paesi dove il grosso dei consumatori si situa a livelli di reddito modesti. Ma talvolta, così facendo, azzecca l’innovazione che può far presa anche su mercati più avanzati. La Nano, la prima auto da duemila euro, nacque nei centri di design di Tata. «Voi europei – disse Ratan Tata – credete che per noi sia tutto più facile, perché guardate al vantaggio competitivo del nostro costo del lavoro. Provate a guardare la realtà da un altro punto di vista. È proprio perché il potere d’acquisto del ceto medio indiano è ancora molto basso rispetto al vostro, che noi viviamo sotto una formidabile pressione competitiva, siamo costretti a raggiungere livelli di efficienza superiori per sfornare prodotti a costi accessibili per i nostri consumatori». Il motofurgone più diffuso in India è l’Ace Tata che fu lanciato con un prezzo di listino inferiore a 4.000 euro. Nello stesso spirito il gruppo Tata lanciò la catena dei motel Ginger con una tariffa iniziale sotto i 20 euro a notte,
e la garanzia di igiene, bagni singoli, wi-fi e aria condizionata in tutte le stanze. (…)
Il 2014 si è aperto all’insegna di una nuova percezione occidentale dell’India. La crisi del 2008, iniziata in America e poi dilagata in Europa, aveva già aperto un ripensamento critico su alcune storture e perversioni della “prima globalizzazione”. La tentazione in Occidente è spesso quella di indicare un colpevole in “Cindia”. La crescita di nuove classi medie asiatiche e l’esplosione dei loro consumi viene descritta come il colpo di grazia per il pianeta. Per un indiano è duro sentirsi dire che mangia troppo, quando la dieta proteica anche nel ceto medio alto di Mumbai o Bangalore resta la metà dell’americano medio. Lo stesso vale per la nuova abitudine di additare la Cina come il mostro che distrugge gli equilibri ambientali. Non c’è dubbio che l’impatto cinese è devastante sulle risorse naturali, se non cambia modello di sviluppo. Ma in Cina attualmente ci sono dieci automobili ogni mille abitanti; negli Stati Uniti ci sono 480 auto ogni mille abitanti. Temere la crescita delle nazioni asiatiche come una calamità, è disonesto. Con questi atteggiamenti giustifichiamo nei Paesi emergenti l’idea che l’Occidente è una roccaforte di ricchi egoisti, i quali hanno razziato le risorse naturali selvaggiamente, per poi predicare l’ambientalismo, la frugalità e l’austerità ai più poveri. La contesa tra “noi” e “loro” per le risorse naturali sempre più scarse – non solo l’energia ma anche l’acqua, e le terre coltivabili – è reale. Sarà uno dei temi dominanti nei prossimi decenni. Questa corsa può prendere una piega estremamente pericolosa.
L’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, uno degli osservatori più acuti della politica internazionale, ha scritto: «Il centro di gravità degli affari internazionali si sposta dall’Atlantico al Pacifico e all’Oceano Indiano. Due saranno le tendenze che definiranno la diplomazia nel XXI secolo: il rapporto tra le potenze asiatiche, Cina, India, Giappone e Indonesia, e il rapporto tra Cina e Usa. In passato, simili smottamenti nella struttura del potere generalmente portavano a una guerra».
Per capire cos’è il Nuovo Mondo in cui vivremo noi e i nostri figli, è essenziale osservare ciò che sta accadendo nei luoghi dove il ritmo del cambiamento è più veloce. Queste aree dove avvengono trasformazioni storiche, disegnano i contorni del XXI secolo e ci influenzeranno durevolmente. Sono questi i laboratori del futuro, eppure gli italiani li conoscono ancora poco. Scoprirli ci aiuta a ridurre l’angoscia e le paure irrazionali. Il 2014 è stato segnato dalle forti turbolenze economiche, valutarie e finanziarie che hanno colpito l’India, insieme con tutti i Brics (la sigla che racchiude la cinque maggiori economie emergenti: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Fughe di capitali, crolli di Borse, svalutazioni, hanno colpito la rupia indiana e la Borsa di Mumbai, così come Bangkok, Buenos Aires e Istanbul. È finito il lungo “miracolo” di Brics e dintorni? L’India ha pagato il prezzo di una classe politica e amministrativa corrotta, di riforme sempre rinviate, di un apparato burocratico costoso, di una rete infrastrutturale inadeguata. E così via. Per molti occidentali, a un pregiudizio se n’è sostituito un altro.
L’innamoramento per l’India si è ribaltato nel suo opposto. Per gli italiani,mettendo in fila una dopo l’altra notizie come la crisi sui marò, gli stupri, e il tracollo della rupia, l’India è tornata rapidamente a occupare il posto che le spettava fino agli anni Novanta: un gigante malato. In realtà la crisi dei Brics nel 2014 ha cause più generali, alcune delle quali vanno cercate in America. Per descrivere le cause delle fughe di capitali che hanno colpito oltre all’India anche l’Indonesia e la Thailandia, l’Ucraina e il Brasile, l’Argentina e il Sudafrica, il governatore della banca centrale del Brasile, Alexandre Tombini, ha parlato di un “effetto aspirapolvere”. L’aspirapolvere, secondo il banchiere centrale di Brasilia, sono i rialzi dei rendimenti in Occidente. Innescati dalla decisione della Federal Reserve americana di ridimensionare gradualmente il “quantitative easing” (creazione di liquidità attraverso acquisti di bond). Con i rendimenti che diventano più interessanti sia in America sia in Europa per effetto della ripresa (o delle aspettative di ripresa, per l’Europa), tanti capitali speculativi abbandonano le piazze esotiche dove erano affluiti negli ultimi anni. L’alta marea del credito facile si ritira, lo spettacolo che rivela nelle zone rimaste a secco fa paura. Quello che era l’arco della crescita globale, è diventato l’arco di una nuova crisi. Tutto ciò che porta l’etichetta “emergente” diventa sinonimo di fragilità improvvisa. I dollari stampati a Washington avevano allagato il pianeta, gonfiato bolle speculative da Shanghai a Johannesburg, da Istanbul a San Paolo.
Bei tempi, quando il ministro brasiliano dell’economia Guido Mantega si lamentava per la “guerra delle valute”, cioè la svalutazione competitiva del dollaro, effetto collaterale della massiccia liquidità. Erano tempi in cui i Brics ricevevano troppi capitali, pertanto i loro mercati immobiliari, le loro Borse e le loro monete si rafforzavano troppo. Oggi è in atto il movimento inverso. Con la bassa marea i capitali rifluiscono, abbandonano le piazze calde. Le nazioni più vulnerabili sono quelle che negli anni d’oro investirono troppo e male, con progetti faraonici, spesso occasioni per vaste corruzioni.
Sull’innovazione Jugaad si sono levate delle voci critiche anche ai vertici del capitalismo indiano. Lo spirito autocritico non manca, in quel Paese. E così, quando il corrispondente del «Financial Times» a Mumbai, James Crabtree, intervistò il grande imprenditore Anand Mahindra (a capo di un impero equivalente a quello dei Tata come dimensioni), quest’ultimo ebbe dei giudizi molto duri sulla Jugaad. Se applicata ai giganteschi problemi dell’India, disse Mahindra, la Jugaad rischia di essere una legittimazione di soluzioni di serie B, improvvisazioni che non curano il male. Va anche ricordato che il camion Jugaad – quello assemblato dai falegnami montando un motore diesel su un carro agricolo – è stato messo sotto accusa in India per la scarsa sicurezza, l’inaffidabilità, gli incidenti mortali. C’è una Jugaad buona e una Jugaad cattiva. L’arte di arrangiarsi può stimolare la creatività, oppure il pressapochismo. È un tema che noi italiani possiamo capire.
Gli americani non cadono nello schematismo e nella semplificazione eccessiva, che porta tanti italiani a passare da un estremo di innamoramento verso l’India, all’estremo opposto della sua esecrazione. Forse qui negli Stati Uniti dove io vivo, aiuta il fatto che gli indiani sono una élite di straordinario successo. Proprio come i tre autori di questo saggio sulla Jugaad. Sono meno dell’1% della popolazione americana, eppure gli indiani scalano i vertici del capitalismo americano, dilagano al comando delle maggiori aziende. La Microsoft ha nominato uno di loro, Satya Nadella, come nuovo chief executive all’inizio del 2014. L’incarico che fu di Bill Gates e Steve Ballmer, ora è occupato da un ex allievo del liceo statale di Hyderabad nello Stato dell’Andhra Pradesh. A 46 anni, Satya Nadella è già un veterano della Microsoft, cominciò a lavorarci nel 1992,mentre frequentava il Master della Business School di Chicago con un pendolarismo da supermaratoneta (andava a Chicago quasi ogni weekend, 4 ore di volo dal quartier generale Microsoft vicino a Seattle). Nadella ora è il capo di un colosso di centomila dipendenti, una delle più grandi società americane per capitalizzazione di Borsa.
La notizia della sua nomina ha scatenato l’entusiasmo nella sua città natale, Hyderabad. Nadella si unisce a una folta schiera di suoi connazionali che occupano posti di potere nel capitalismo Usa. Solo nella Silicon Valley, le start-up tecnologiche fondate da imprenditori indiani sfiorano il 15% del totale. Contando i chief executive, tra i più celebri ci sono Indra Nooyi alla guida della Pepsi Cola; Shantanu Narayen di Adobe Systems; Francisco D’Souza di Cognizant Technology Solutions; SanjayMehrota di San Disk; Ravichandra Saligram di Office Max; Dinesh Paliwal di Harman International Industries. A Wall Street la Citigroup era guidata dall’indiano Vikram Pandit.
Se c’è una lezione più generale da apprendere, che ci riconduce al tema della Jugaad: bisogna rifuggire dalla pigrizia intellettuale, che ci rende incapaci di generare il cambiamento.
New York, 20 febbraio 2014