Jacob, un fotogiornalista a piazza Maidan

“Se a dicembre quello che mi aveva attratto era stata la totale partecipazione delle persone, la grande speranza che le cose potessero cambiare, quando sono tornato a febbraio la situazione era completamente diversa, tesa. Tutti i dimostranti, a quel punto, andavano in giro col passamontagna, il giubbotto antiproiettile. L’entusiasmo lasciava spazio alla vocazione al martirio”.

di Laura Aguzzi

Assistere alla Storia, quella con la s maiuscola, mentre avviene. Osservare l’innescarsi degli eventi, i cambiamenti, le emozioni e le delusioni di una nazione in lotta con il proprio destino. Può succedere, quando si è reporter di professione. Ma con i tempi della produzione mediatica odierna le permanenze si accorciano, l’esperienza umana viene meno, anche quando si coprono eventi di grande rilievo internazionale e di lunga durata. Si arriva in un posto e si fa una cronaca sulla base di quegli elementi che si riescono a trovare nei pochi giorni, a volte nelle poche ore, di permanenza. In mezzo a questo scenario, in cui i grandi reportage che hanno reso famosi giornalisti come Kapuściński, Fallaci o Terzani sarebbero oggi impossibili da realizzare, c’è ancora chi prova a fare questo mestiere in maniera diversa. Certamente con difficoltà e precarietà. Ma scegliendo di raccontare la complessità, aldilà delle immagini riprese a livello globale, che troppo spesso nascondono i volti degli individui dietro quelli della massa.

Jacob Balzani Lööv

Jacob Balzani Lööv – Credits: Amin Musa

Jacob Balzani Lööv, fotogiornalista e scrittore, ha osservato la rivoluzione ucraina fin dal suo incipit. In quest’intervista, realizzata mentre si trovava a Kiev a fine marzo, ci racconta cosa ha visto e che impressione ha ora di un paese sull’orlo di una guerra civile.

Jacob tu hai avuto modo di seguire gli avvenimenti in Ucraina a più riprese fin da novembre. Qual è stata l’impressione che hai avuto quando sei andato lì la prima volta?
La prima manifestazione che ho visto era molto pacifica e in buona parte era anche depoliticizzata. C’erano molti studenti e poteva sembrare una nostra manifestazione in Italia. C’era un grosso supporto della popolazione ma non sembrava paragonabile a quello della Rivoluzione Arancione del 2004. Quando ho lasciato Kiev pensavo che sarebbe finita lì. Invece era solo l’inizio.

Quando è iniziata a cambiare la protesta?
Il fattore scatenante è stato il pestaggio degli studenti a piazza Maidan, proprio sotto la colonna, la notte del 30 novembre. È stato questo che ha fatto arrivare gran parte della gente in piazza e li ha fatti arrivare per rimanere. Se all’inizio si chiedeva solo una ristrutturazione del trattato di collaborazione con l’Unione Europea, da lì in poi si è iniziato a chiedere le dimissioni del presidente Viktor Yanukovych. Diversi gruppi sono arrivati in piazza, anche tante persone con un’esperienza militare, ad esempio veterani dell’Afghanistan o addirittura dell’Angola.

Tre giovani scherzano all'interno dell palazzo occupato delle "Trade Union"

Tre giovani del 14emo gruppo di auto-difesa di Maidan scherzano nella Casa dell’Architettura

Com’era stare in piazza in quei giorni?
La cosa bella di essere in piazza all’inizio di dicembre era vedere la spontaneità, la voglia di tutte le persone di poter dare il loro contributo verso il successo di Euromaidan. C’era una grande partecipazione. Fino al giorno in cui Yanukovych ha accettato questo patto con la Russia per ricevere 35 miliardi di dollari. È stato allora che ho visto la maggior parte delle persone perdere la speranza che si potesse raggiungere un risultato.

E quindi si è radicalizzato il confronto?
È diventato più politicizzato. Più le persone decidevano di rimanere in piazza più perdevano il loro posto di lavoro e c’era una forte paura che il governo avrebbe perseguitato chiunque continuasse a manifestare. E questo piano piano si è amplificato fino a quando in gennaio il governo ha fatto varare una serie di leggi contro chiunque si trovasse in piazza. A quel punto sono arrivati gli scontri di Hrushevskoho Street, dove sono stati uccisi i primi manifestanti.

Dimostranti in via Instituzkaya, sotto l'hotel Ucraina, aiutano nonostante la presenza di cecchini a spostare la pavimentazione di piazza Indipendenza per costruire muri di difesa

Nonostante la presenza di cecchini i dimostranti, sotto il Palazzo d’Ottobre, collaborano per costruire muri di difesa via Instituzkaya

Il giorno dei cecchini tu eri in piazza, cos’hai visto?
Quello che mi ha colpito di quel giorno che poi è stato anche quello che ho fotografato è stata questa partecipazione collettiva, quasi un evento biblico. C’era il pericolo che sparassero ad altre persone, nessuno sapeva dove fossero i cecchini e nonostante questo la piazza era piena, tutti si davano da fare per spostare le pietre e trasportarle nella piazza dove stavano costruendo dei muri, c’era una catena umana di persone e vedevi questi muri ergersi quasi in tempo reale davanti ai tuoi occhi.

Tu che impressione hai avuto della copertura che i media italiani e stranieri hanno dato della rivoluzione?
Non c’è stata subito una grande attenzione, soprattutto nella parte più pacifica della rivoluzione, che secondo me era anche la più bella. La gran parte dell’attenzione è arrivata dopo gli scontri in Hrushevskoho Street e poi quando molti manifestanti sono stati uccisi dai cecchini.

E sei riuscito a capire un po’ qual è stata la copertura da parte dei media ucraini?
Qui in Ucraina, la lotta è stata giocata tantissimo dai media fin dall’inizio. Prima erano le televisioni di Yanukovych contro le televisioni non di Yanukovych. Adesso sono le televisioni russe contro le televisioni ucraine. Poi, oltre alle grandi reti, ci sono anche tanti media locali. Da questo punto di vista penso che la rivoluzione sia stata coperta in maniera eccezionale. C’era tantissima gente sempre a filmare qualsiasi cosa succedesse: c’è una registrazione di tutto quello che è accaduto. Io sono stato ospite di due professori ucraini e loro guardavano ininterrottamente sul computer in streaming tutto quello che accadeva in piazza, che veniva passato ininterrottamente da novembre fino alla fine e ancora adesso. Certo c’era una grande differenza tra le notizie di Kiev e quello che dalla capitale arrivava verso le campagne. Ed è anche per questo che ho deciso di andare nell’est dell’Ucraina: per capire cosa filtrasse, quale fosse la partecipazione nel villaggio della prima vittima da arma da fuoco delle manifestazioni, Serhiy Nigoyan.

Chi era quest’uomo?
Serhiy Nigoyan era uno studente. Aveva 20 anni ed era di origini armene. I genitori erano scappati dall’Armenia nel 1991 durante il conflitto del Nagorno-Karabakh e si erano trasferiti in Ucraina, in questa regione prevalentemente agricola.

Tu sei andato a casa sua…
Si, sono andato a Bereznuvativka, il suo piccolo paese. È vicino a Dnipropetrovsk, la campagna ucraina, a 500 km da Kiev. Si tratta di una di queste città segrete in cui era molto difficile avere accesso ai tempi dell’Urss, perché lì venivano costruite testate nucleari.

E lui è venuto dall’est dell’Ucraina per manifestare contro il governo di Yanukovych?
È venuto in piazza dopo il pestaggio degli studenti da parte delle forze speciali di polizia. Come tanti non poteva più restare a vedere quello che succedeva in televisione ma doveva prendere una posizione attiva. Per cui ha deciso di venire in piazza ed è rimasto quasi tutto il tempo a manifestare; è tornato a casa solo per un breve periodo, durante il capodanno ortodosso.

Un cantante intrattiene una dimostrazione a supporto del partito di  Yanukovich a Dnepropetrovsk

Un cantante intrattiene una dimostrazione a supporto del partito di Yanukovych a Dnipropretovsk

Ti sei accorto che nell’est dell’Ucraina c’era una realtà diversa rispetto a Kiev?
L’est dell’Ucraina è piuttosto vasto. Oltre alla Crimea, che è particolarmente filorussa, ci sono anche le regioni di Donetsk che hanno sempre supportato Yanukovych. L’Ucraina dell’est è molto più industrializzata, essenzialmente perché lì c’erano giacimenti di carbone e sono state costruite fabbriche anche prima dell’invasione sovietica. Quest’industrializzazione è poi aumentata, trasformando quest’area in una zona di immigrazione dal resto del paese, prevalentemente rurale e quindi più povero. Nel mio viaggio ad est ho cercato di incontrare persone che la pensassero diversamente dai manifestanti, persone che supportassero Yanukovych e ho scoperto che la realtà è complessa. Ci sono persone che supportano il Partito delle Regioni (ndr quello di Yanukovych) perché garantisce maggiore stabilità al paese. Oppure ci sono tante altre persone che, pur in disaccordo con il governo, sono contrari all’occupazione della piazza: secondo loro si sarebbero dovute aspettare le prossime elezioni per cambiare il potere.

E le accuse piovute da molti media? In molti hanno detto che le manifestazioni si stessero trasformando in un movimento fascista, razzista? Cosa ti è sembrato di questo racconto?
Cercare di far passare questa dimostrazione come una manifestazione fascista o neonazista è stato fatto soprattutto dai media russi e più tardi da altri media occidentali. A dire il vero croci celtiche e simboli neofascisti io ne ho visti fin dall’inizio. In effetti, quello che ha tenuto insieme questi gruppi nella piazza è stato il nazionalismo. Ma il fatto di essere nazionalisti non significa automaticamente essere di destra, perché ci sono dei gruppi che sono riconosciuti come nazionalisti di sinistra, penso ad esempio all’ETA nei Paesi Bassi o Sinn Féin in Irlanda. Mi è sembrato che la composizione della piazza venisse trattata in modo abbastanza superficiale. Gruppi di destra ci sono, gruppi neonazisti ci sono. Ma è una piccola parte della piazza. Per la maggioranza delle persone con cui ho parlato non sono loro il problema principale, quanto piuttosto il rischio di invasione da parte della Russia. Solo in secondo luogo c’è la preoccupazione di riuscire a inquadrare questi gruppi di estrema destra, che hanno preso delle posizioni di potere nel governo.

Qual è stata la reazione all’occupazione della Crimea? La vogliono indietro?
No, però c’è paura che succeda qualcosa nell’est dell’Ucraina. Tutta l’attenzione, quella che doveva essere per la lotta alla corruzione, per costruire un governo migliore e per entrare in Europa è stata depistata verso la guerra. Tutti adesso pensano esclusivamente alla possibilità che si entri in guerra e tutte le decisioni di politica interna sono state lasciate un po’ da parte in questo momento, il che, vista la situazione economica dell’Ucraina, non è un fatto positivo.

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Reclute della guardia nazionale, facenti parte dei gruppi di autodifesa di Maidan, si allenano a Novvi Petrivsi

Tu hai seguito un gruppo di ragazzi e la loro esperienza della rivoluzione. Com’è il clima adesso tra di loro, cosa si aspettano?
Ho seguito un gruppo di ragazzi che sta formando un gruppo di autodifesa: frequentano un corso nella guardia nazionale e imparano a usare per la prima volta delle armi vere. In tanti sono pronti a condurre una guerra partigiana nel caso in cui ci sia un’invasione dell’Ucraina da parte della Russia…niente di molto promettente!

Quanti anni hanno questi ragazzi? Ci sono delle donne?
I ragazzi che fanno il corso per la guardia nazionale sono per lo più uomini. La maggior parte ha vent’anni adesso: è la prima generazione nata al di fuori dell’Unione Sovietica, in uno stato ucraino indipendente. Sono le prime persone che crescono in Ucraina senza ricevere un’istruzione di tipo sovietico.

Ma stando sul campo hai avuto l’impressione che la protesta fosse manovrata?
Dal campo è difficile da vedere! Io posso dire se le persone erano spontanee in quello che facevano e certamente lo erano e lo sono ancora! Però indubbiamente c’è sempre qualcuno che cerca di trarre vantaggio dalla situazione, cerca di manovrare a proprio favore quello che sta succedendo.

E tu come cerchi di raccontarlo il conflitto?
Io ho sempre cercato di raccontarlo dal punto di vista delle persone, di trasmettere l’emotività e la partecipazione che c’era all’interno della piazza. Un giorno a un picchetto di una stazione televisiva ho incontrato una ragazza con un passamontagna: si vedeva solo questa treccia rossa che usciva sotto il berretto, lo smalto rosso sulle unghie. Le ho chiesto se potevo intervistarla il giorno dopo e lei il giorno seguente è arrivata vestita da studentessa, con dei vestiti normalissimi: non sarei riuscito a riconoscerla! Parlando abbiamo discusso delle differenze tra le proteste di dicembre e di febbraio: io le raccontavo il mio stupore di fronte al cambiamento e lei mi confermava che l’entusiasmo e la voglia di cambiamento c’erano ancora ma bisognava ormai cercarle sotto i passamontagna. È un’idea che continuo a coltivare, perché voglio vedere come sia possibile il passaggio da un tipo di dimostrazione pacifica a un tipo di dimostrazione violenta, in cui questi ragazzi hanno iniziato a coprirsi il volto, indossare un giubbotto antiproiettile e andare in giro armati con dei bastoni.

Scaletta della puntata del 16 aprile 2014

Introduzione Carlo Freccero

A questo punto dò la parola a Carlotta Balena che ha analizzato il tema del nostro format. La manipolazione: cos è, dove si nasconde e perché. È questo quello che cercheremo di capire in ogni nostra puntata di questo format.

Carlotta Balena: La manipolazione avviene sul contenuto ma anche sulla forma, passa sia per il cosa viene detto sia per il come viene detto. Una notizia può essere deliberatamente falsificata, la si può dare solo in parte, si può scegliere di non dirla proprio, o dirla con un linguaggio criptico, difficile da capire. Se il pubblico non capisce, non sa, non conosce di cosa stiamo parlando. E non è informato.

I media hanno il potere di suggerire ai cittadini intorno a che cosa pensare, ed offrono una lista di argomenti sui quali avere un’opinione e discutere. In altre parole direzionano l’opinione pubblica.

Quello su cui però bisogna riflettere è il fatto che per essere veramente efficace, la manipolazione implica sempre un coinvolgimento attivo del pubblico.

SERVIZIO CARLOTTA BALENA, LA MANIPOLAZIONE …………………………1

Naturalmente oggi parliamo di Ucraina e per affrontare questo tema abbiamo voluti avere con noi degli esperti, Lucio Caracciolo, direttore della più grande rivista di geopolitica italiana, Limes, e Sergio Romano, ambasciatore italiano in Russia, oggi firma del Corriere della Sera.
Due attenti osservatori della realtà, a abbiamo scelto di affiancare quella di altri due grandi interpreti della modernità, dalle visioni del tutto contrapposte.
Edward Nicolae Luttwak, economista, politologo e saggista conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e politica estera. E ancora Giulietto Chiesa, giornalista ed esperto di tesi complottistiche.

Antonello Paciolla: Forse come inizio sarà un po’ faticoso, ma dobbiamo partire dalla storia, dalla storia dell’Ucraina. Solo conoscendo le complesse vicende della regione, soprattutto quelle del Novecento, possiamo comprendere la crisi in Crimea. Ne abbiamo parlato con Sergio Romano, storico, editorialista del Corriere della Sera ed ex ambasciatore italiano a Mosca

SERVIZIO ROMANO, PANORAMA STORICO……………………………………………2

Ma passiamo dalla storia all’attualità, a questa crisi che ha scosso le coscienze del mondo. Come nasce? Michele Raviart che assieme ai suoi colleghi Carlotta Balena e Luca Serafini lo ha chiesto a Lucio Caracciolo

Michele Raviart: abbiamo chiesto a Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più conosciuta rivista di geopolitica in Italia, quali siano stati i passaggi di questa crisi, del perché si è evoluta e cosa ci ha lasciato.

SERVIZIO CARACCIOLO, TAPPE RIVOLUZIONE…………………………………………3

Il protagonista di tutta questa crisi è uno solo: Putin. Nicole Di Giulio e Nicola Mechelli ne hanno fatto un ritratto per noi.

Nicole Di Giulio: il protagonista delle crisi ucraina è il presidente russo Vladimir Putin. Ha coniato la sua immagine in modo da conquistare il popolo russo, nonostante le proteste non manchino. Non è riuscito a farsi amare in occidente. Una scelta forse, voluta? Diversamente di Barack Obama che con il suo sorriso e i suoi discorsi piace a tutti. Un idealismo mediatico, quello di Obama, che ha conquistato il mondo, dagli Usa all’America Latina, dall’Africa all’Asia.
Io e Nicola Mechelli ne abbiamo fatto un ritratto, la sua storia e i suoi lati oscuri visti attraverso i nostri occhi

SERVIZIO PUTIN..…………………………………………………………………………4

È proprio così che entriamo nel vivo del dibattito, che prima di tutto contrappone gli Stati Uniti alla Russia, che contrappone tesi geopolitiche e scelte economiche.
Edward Nicolae Luttwak, economista, politologo e saggista conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e politica estera E Giulietto Chiesa, un giornalista della Stampa che ha lavorato in Russia per anni. Oggi si occupa di complotti e controinformazione.
Il rosso e il nero, senza nessun riferimento politico, sono stati intervistati da Lorenzo Grighi e Antonello Paciolla

Lorenzo Grighi: Qual è il vero piano della Russia? E’ davvero quello di annettere tutta l’Ucraina, come si ripete tra i media occidentali? Edward Luttwak e Giulietto Chiesa danno una lettura della situazione molto diversa tra loro…

SERVIZIO LUTTWAK- CHIESA………………………………………………………………5

Contro Putin non c’è un leader. C’è l’Europa, ma soprattutto la rivoluzione. Chi sa davvero cosa è avvenuto in Piazza. È importante a questo punto presentare il diario di un fotogiornalista che ha seguito la rivolta. Ci racconta una storia, delle storie, che nessuno ha raccontato. Per noi lo ha intervistato Laura Aguzzi

Laura Aguzzi e Carlo Freccero: Tu che conosci Jacob, un tuo amico, raccontaci come ha seguito la rivoluzione, cosa ha visto

Laura Aguzzi: Jacob Balzani Lööv è un fotogiornalista e uno scrittore, ed ha avuto modo di fare qualcosa che non si fa più nel giornalismo odierno. Lo sappiamo, inviati e corrispondenti costano, non c’è spazio per l’approfondimento e l’esperienza umana. Si arriva in un posto e si fa una cronaca sulla base di ciò che si può osservare nei pochi giorni, a volte nelle poche ore di permanenza. Ecco Jacob ha avuto modo di seguire la rivoluzione ucraina dall’inizio, fin dal suo incipit, vivendo fianco a fianco con i suoi protagonisti. In quest’intervista, realizzata il 28 marzo da piazza Maidan, ci racconta cosa ha visto e che impressione ha ora di un paese sull’orlo di una guerra civile.

SERVIZIO FOTOGIORNALISTA………………………………………………………………6

Un vera e propria guerra, raccontata dai media. Ed è da qui che parte il nostro approfondimento. Ma quale è stato il loro ruolo in Ucraina?

Michele Raviart: Ogni guerra è anche una guerra di informazione, come ci ha spiegato Lucio Caracciolo.

SERVIZIO CARACCIOLO, MEDIA……………………………………………………………7

Parliamo appunto di media, di media italiani. Vediamo i nostri media italiani. Soprattutto la tv italiana. Ha vissuto l’inizio della crisi quando in Italia stava cambiando il Governo. Inizialmente l’Ucraina è stata complementare, di sfondo alla politica di palazzo.
Lucina Paternesi e Alessia Marzi hanno analizzato come i telegiornali ha trattato la rivoluzione

Lucina Paternesi: Sui media italiani negli ultimi mesi è andata in onda la telenovela di Kiev. Ma che cosa è accaduto veramente a piazza Maidan e in tutta l’Ucraina forse i teleascoltatori italiani non lo capiranno mai. E probabilmente perché gli stessi media italiani non l’hanno mai capito .
E’ il 21 novembre quando scoppia la protesta a piazza Maidan, e inizialmente in Italia solo il Tg La7 percepisce che in Ucraina sta accadendo qualcosa. Gli altri telegiornali nazionali, nell’edizione della sera, se ne interesseranno solo qualche settimana dopo, quando iniziano a cadere i simboli del potere russo sull’intera regione.
Poi ancora, a natale viene brutalmente picchiata una giornalista filo europeista. Saranno solo il Tg 3 e il Tg La 7 a raccontarci di Tetiana Chornovol.
A febbraio Kiev è teatro di una brutale guerra civile: ma nessuno in Italia spiega chi muore in piazza Indipendenza. Chi sono, cosa vogliono, perché continuano a presidiare i palazzi del potere e si lasciano uccidere. A scorrere i vari titoli dei principali tg a parlare sembra un’unica voce. Con qualche, rara e preziosa eccezione.
Poi l’atto di forza, il referendum e la Crimea che torna ad essere russa. Tutti i telegiornali in prima fila a dare spazio alle reazioni di Obama, Nato e Unione Europea: siamo pronti a reagire, la Russia incorrerà in sanzioni, la paura di rimanere a corto di gas mascherano in realtà la totale assenza di forza delle istituzioni europee e della nato di fronte a un dato di fatto. Putin, ha vinto.

SERVIZIO TG ………………………………………………………………………………8

Ma c’è anche chi ha trattato l’Ucraina in modo diverso, offrendo un altro punto di vista. Ne hanno avuto esperienza Caterina Villa e Michela Mancini.

Caterina Villa: Il racconto fatto dai media televisivi italiani è stato superficiale e univoco, tuttavia ci sono delle eccezioni. La più lampante è il lavoro di Lucia Goracci. A differenza delle testate generaliste, l’inviata di Rainews24 non si è fermata al mero racconto dei fatti di cronaca, è riuscita, invece ad entrare in profondità, nel tessuto quindi, della società civile che ha vissuto il conflitto in Crimea. Un servizio trasmesso il 20 marzo ne è la prova. La Goracci ha deciso di portare lo spettatore dentro una scuola di musica a Sinferopoli. Un posto “altro”, dove bambini ucraini, tatari, russi continuano a convivere quotidianamente nonostante tutto. Il servizio offre un punto di vista completamente diverso, capace di far comprendere a chi guarda la complessità di quei giorni, ben oltre la narrazione del conflitto, la Goracci racconta gli essere umani.

SERVIZIO LUCIA GORACCI ………………………………………………………………9

Michela Mancini: Quello che abbiamo imparato chiacchierando con Lucia è che per fare davvero bene il mestiere di inviato bisogna quanto più possibile scomparire dietro i fatti per lasciare parlare le immagini. Nel giornalismo televisivo devi lavorare a togliere. Scegliere una porzione di realtà e lasciarla vivere davanti la telecamera. Senza aggiungere commenti.

Dall’Italia all’estero. Abbiamo avuto un assaggio di come si sia comportata l’informazione italiana, ora invece cerchiamo di capire come la tv straniera ha scelto di coprire l’evento. Manlio Grossi e Giulia Sabella hanno analizzato per giorni le reti russe e quelle americane.

Manlio Grossi: Quello in Ucraina è stato anche uno scontro mediatico. Due delle maggiori potenze mondiali, Stati Uniti e Russia, hanno degli interessi su questo territorio e per loro è importante riuscire a portare dalla propria parte l’opinione pubblica nazionale e internazionale.
Putin, come hanno dimostrato anche le olimpiadi invernali di Sochi, vuole dare l’immagine di una grande Russia, mentre gli Stati Uniti, dal canto loro, si ergono a difensori della democrazia e dei popoli oppressi.
Non stupisce quindi che guardando i Tg russi e statunitensi ci si trovi di fronte a scenari molto diversi.

SERVIZIO MEDIA STRANIERI……………………………………………………………10

Giulia Sabella: La differenza tra informazione e propaganda non è sempre ben definita e la stessa indipendenza dei giornalisti è in dubbio

Dissenso e propaganda, Affrontiamo due casi particolari che sono l’emblema di uno scontro mediatico che non si gioca solo sulle notizie. Sentiamo Sophie Tavernese, che con Laura Aguzzi ha approfondito alcuni particolarissimi fatti di cronaca: ad esempio quello di una giornalista che si dimette in diretta perché non condivide come la propria testata ha scelto di parlare dell’Ucraina.

Sophie Tavernese: Uno scontro mediatico in cui le strumentalizzazioni non hanno riguardato solo le notizie. Gli stessi programmi televisivi sono stati usati da giornalisti americani e russi per sostenere le loro posizioni o forse anche solo per avere più visibilità.

SERVIZIO DIMISSIONI………………………………………………………………………11

Michele Raviart: Toni da guerra fredda quelli utilizzati per parlare di Ucraina. E c’è chi parla addirittura di un vero e proprio ritorno alla guerra fredda. Ma è veramente così? Lo abbiamo chiesto a Lucio Caracciolo

SERVIZIO CARACCIOLO, RAPPORTI AMERICA USA …………………………………12

America e Russia, rapporti da sempre complessi che nascondono aspetti prettamente economici. È proprio di economia che ora parleremo, di ciò che ha contribuito a far esplodere il caso dell’Ucraina.
Abbiamo preparato un focus che va oltre la schiuma dell’informazione. Alessandro Orfei e Antonella Spinelli lo hanno fatto per noi

Alessandro Orfei: Sullo sfondo della crisi in Ucraina un grande gioco di interessi economici. Dall’Ucraina infatti passa gran parte del gas russo diretto in Europa e l’annessione della Crimea alla Russia potrebbe addirittura far cambiare il percorso del gasdotto Southstream. Ma in questo gioco ci sono anche gli Stati Uniti, che non vedono bene il Southstream perché puntano a sostituirsi alla Russia come fornitore di gas per l’Europa attraverso lo shale gas. Un gas che si ottiene dalla frantumazione di argille. Il tutto a partire dai prossimi anni. Infatti al momento l’estrazione di questo gas è impegnativa, richiede trattamenti altamente inquinanti.
Vediamo il servizio

SERVIZIO ECONOMIA, GASDOTTI ……………………………………………………13

Non solo gas. L’economia ucraina è fatta di rapporti complessi, in bilico tra le dinamiche economiche europee e quelle russe

Antonello Paciolla: Sì, le differenze tra Ucraina orientale e Ucraina occidentale, infatti, non sono solo etniche e culturali, ma anche economiche. Sentiamo ancora Sergio Romano

SERVIZIO ROMANO, ECONOMIA UCRAINA…………………………………………14

I rapporti economici di cui abbiamo parlato, vengono ridotti a punti di vista a dir poco manichei, dai nostri due commentatori, Edward Nicolae Luttwak e Giulietto Chiesa. Valutazioni opposte e inconciliabili che non posso far altro che far riflettere.

Lorenzo Grighi: Il gas sembra essere, secondo molti, il vero ago della bilancia nel confronto tra Russia e Stati Uniti. Ma per capire meglio come stanno le cose sentiamo il parere dei nostri esperti Luttwak e Chiesa

SERVIZIO LUTTWAK- CHIESA, GASDOTTI…………………………………………15

Davanti a questa complessità di tesi e interpretazioni, vediamo come si è comportato il web: Cecilia Bacci e Alessandra Borella hanno analizzato ciò che la rete ha offerto, e hanno scelto di occuparsi di fact checking.

Cecilia Bacci: fra i tanti siti che abbiamo esaminato abbiamo fatto una scelta particolare. Di raccontare l’analisi di chi si è sentito attaccato da un informazione di propaganda.
Introduce “Stopfake” spiegando che cos’è e come funziona (clip del sito)

Alessandra Borella: “Chi c’è dietro Stopfake? Chi sono? Innanzitutto giornalisti, una community di ex studenti della scuola di giornalismo di Kiev. Sono 15 e fanno di tutto, in un settimana milioni di visualizzazioni

CLIP YOUTUBE STOPFAKENEWS………………………………………………………16

Lancia una clip di Youtube di 15″ (le Stopfakenews) lo schermo va in freeze sul volto di Margo (tutto in post-produzione)

Alessandra Borella: Queste le news che hanno caricato questi ragazzi. Sulla sinistra vedete Margo Gontar, 25 anni, una dei confondatori del sito. La abbiamo intervistata, sentiamo dalla sua voce cosa pensa della crisi in Crimea.

Clip audio intervista Margo con voce originale e traduzione in italiano di Alessandra (1 minuto, in post produzione, sullo schermo andrà il parlato in typewriting)

INTERVISTA MARGO, DOPPIATA DA ALESSANDRA…………………………………17

Alessandra Borella: Ecco chi sono e che cos’è Stopfake. Sono giovani patriottici, sono giornalisti ma anche cittadini ucraini. Sono forse troppo coinvolti? Vediamo i cittadini come hanno usato il web e i social

Cecilia Bacci: Anche i cittadini hanno raccontato la protesta sul web. Il problema, per i giornalisti che utilizzano questi materiali, è la verifica delle fonti

SERVIZIO DIRETTE STREMING…………………………………………………………18

Il web è la moltitudine dei punti di vista, è polifonico. Ma è anche controinformazione. Sentiamo perché con Antonio Bonanata.

Antonio Bonanata: “Le marionette di Maidan”: è questo il titolo del video, postato su Youtube e ritwittato dal portavoce del primo ministro russo, che riproduce l’audio di una conversazione telefonica avvenuta a fine gennaio tra Victoria Nuland, ambasciatrice degli Stati Uniti con delega ai rapporti europei, e Geoffrey Pyatt, rappresentante del governo di Washington a Kiev.

Un’intercettazione da “guerra fredda” nel bel mezzo della crisi Ucraina, che ha messo in forte imbarazzo l’amministrazione Obama. Sentiamo perché …

VIDEO AUDIO NULAND……………………………………………………………………19

Antonio Bonanata: In poche ore questo scoop ha fatto il giro della rete provocando un incidente diplomatico, l’ennesimo, tra la Germania e gli Stati Uniti. La cancelleria Merkel, infatti, ha definito “assolutamente inaccettabili” le parole dell’ambasciatrice statunitense. Immediate le scuse a tutti i principali leader europei.

Ma chi sono i protagonisti del video e cosa ci suggeriscono? Victoria Nuland dice di aver parlato con Geoffrey Feltman, sottosegretario Onu agli affari politici, per fare in modo che siano le Nazioni Unite a risolvere la crisi. Hanno pensato per questo a un inviato speciale, l’ambasciatore Robert Serry. Nelle intenzioni degli Usa, infatti, ci sarebbe un piano di pacificazione del paese, con cui bypassare Bruxelles.
Il “Fuck the Eu” esprime benissimo il consueto stile con cui gli Stati Uniti sono soliti trattare le crisi straniere. Come se fossimo davvero ai tempi della Guerra Fredda: America e Russia giocano i ruoli principali e l’Europa è relegata a semplice comprimario.

Un esempio di come L’Europa in questo caso non abbia dimostrato spessore. Di fatto sono gli Usa a contrapporsi alla Russia. Anche in questo caso il web è luogo di complotti, di indiscrezioni, valutazioni geopolitiche

Federico Frigeri: Una notizia che ha iniziato a circolare negli ultimi giorni – dapprima un po’ ai margini del web e poi via via ripresa da numerosi blog e siti di controinformazione – prefigura uno scenario da conflitto finanziario con la nascita di una nuova moneta, come risultato di un asse sino-russo per marginalizzare il dollaro. L’avvicinamento tra le due potenze si è già registrato negli ultimi mesi per motivi energetici – la Russia è ricca di materie prime e bisognosa di soldi, l’esatto contrario della Cina.
Quello che il web arriva ad ipotizzare è un nuovo ordine valutario, una riedizione in salsa asiatica del gold standard system, che potrebbe essere allargato anche all’India (anche è una storica alleata degli USA). Tre monete – yuan, rupia e rublo – quest’ultimo lo ricordiamo ad oggi è precipitato ai minimi storici con una contrazione del 10% sul dollaro – sarebbero pronte a coalizzarsi per mettere in discussione l’egemonia statunitense. Questa notizia, di cui non c’è traccia nei siti italiani, è vista con molto scetticismo dall’informazione ufficiale, può essere falsa, ma sicuramente muove da alcuni elementi che sono sotto gli occhi di tutti. Primo: le sanzioni contro la Russia e la decisioni di compagnie come visa e mastercard di sospendere i servizi ai clienti di alcune banche russe. Poi la decisione delle tre principali agenzie di rating di declassare il debito russo, primo tassello di una guerra economica. Infine l’accordo proprio di questa settimana della Banca popolare di Cina con la Bundesbank per regolare le transazioni solo in yuan ed euro. Insomma, mai come oggi Russia e Cina sono state vicine. Insieme, contro l’odiato dollaro

Polifonia, moltitudine, controinformazione e scenari futuri. È evidente come su internet non ci siano regole, la chiave stia nella competenza dell’internauta. Il giornalista, ora più che mai, è il mediatore essenziale tra questa vastità di informazioni e il pubblico che vuole capire cosa gli accade intorno

Partiamo da qui, e andiamo a vedere come si è comportata la carta stampata attraverso gli occhi di due inviati.

Edoardo Cozza: Daniele Raineri, esperto di esteri del Foglio, è stato inviato in Ucraina. Ha deciso di partire per andare a verificare sul campo se le notizie riportate da blog e siti di controinformazione fossero reali. Ha scoperto, invece, che quanto stava accadendo spesso era difforme. E sulla professionalità dei giornalisti esteri, Raineri conferma che fuori dall’Italia sono richiesti uno standard alto e precisione: regole semplici, ma che in Italia i suoi colleghi faticano a seguire

SERVIZIO COZZA, INTERVISTA RAINERI…………………………………………20

Valentina Rossini invece ha intervistato per noi un altro giornalista, inviato a Kiev per la sua testata

Valentina Rossini: parlando con Alessandro Farruggia, inviato in Ucraina per QN, ho rilevato come la stampa italiana abbia sposato una causa ben precisa, quella filoeuropea. Anche e soprattutto alla vigilia del referendum in Crimea

SERVIZIO ROSSINI, INTERVISTA FARRUGGIA…………………………………………21

Apriamo proprio qui una parentesi sulla Crimea, e sul referendum. Un fatto di cronaca che ha aperto un grande dibattito. È Una forma di annessione o espressione di volontà popolare, di autodeterminazione dei popoli?
In pochi hanno cercate di dare delle risposte facendo riferimento al referendum del Kosovo, che di fatto, al livello di diritto internazionale, ha creato un precedente in grado di legittimare ciò che è accaduto in Crime
Abbiamo sentito Gregory Alegi, docente di storia americana della Luiss, che apre questo parallelismo tra il referendum del Kosovo e quello in Crimea.

Su questo argomento si sono schierati anche Edward Nicolae Luttwak e Giulietto Chiesa

Lorenzo Grighi: Il Kosovo si rese indipendente dalla Serbia con una risoluzione votata dal parlamento provvisorio nel febbraio 2008. In quel caso l’indipendenza venne riconosciuta da gran parte della comunità internazionale. Il caso della Crimea può essere comparabile? Lo abbiamo chiesto a Gregory Alegi, professore di Storia americana alla Luiss, e ai nostri due esperti Luttwak e Chiesa.

SERVIZIO GREGORY ALEGI………………………………………………………………22

SERVIZIO LUTTWAK CHIESA, KOSOVO ………..……………………………………23

Apriamo l’ultimo capitolo di questa puntata, tutto dedicato alle ideologie. Questo referendum, come tutta la rivoluzione, pone un quesito. Stanno davvero tornando alla ribalta i nazionalismi? Le grandi teorie del 900? Quella che da molti è già considerata archeologia della storia, non lo è.
C’è un nazionalismo russo, un ritorno alle tesi naziste da parte di alcuni gruppi ucraini che mette in allarme, e che va sicuramente approfondito.
Questa crisi fa precipitare la storia non nel 2020, ma nel ‘900. Stiamo davvero precipitando di nuovo in un braccio di ferro tra estremismi? Lo abbiamo chiesto ai nostri esperti, Lucio Caracciolo e Sergio Romano

SERVIZO CARACCIOLO …………………………………………………………………24

SERVIZIO ROMANO ………………………………………………………………………25

Sentiamo chi si è occupato proprio di nazionalismo in Ucraina. Luca Serafini Edoardo Cozza e Giuseppe di Matteo hanno cercato di capire chi si è infiltrato nel movimento di protesta di Piazza Maidan. Un lato della rivoluzione, questo, che l’informazione generalista non ha trattato come avrebbe dovuto.

Giuseppe Di Matteo: partiamo dall’inizio: gli ucraini scendono in piazza a contestare e in poco tempo la rivolta sfugge di mano. Chi sono stati i veri protagonisti della protesta contro Yanukovich? Spesso gli organi d’informazione non hanno approfondito un aspetto che poi si è rivelato tutt’altro che marginale: le infiltrazioni degli ultranazionalisti. Nel servizio curato con Edoardo Cozza e Luca Serafini abbiamo cercato di capirne qualcosa di più

SERVIZIO NEONAZISTI………………………………………………………………………26

Siamo quasi al termine di questa nostra puntata, ma abbiamo voluto dare spazio a un’interpretazione di Edward Nicolae Luttwak che descrivendo il carattere storico e sociologico del popolo russo è riuscito a sintetizzare in una battuta i sentimenti di un popolo eternamente combattuto tra sogni imperialistici e imperativi dettati dalla modernità

SERVIZIO LUTTWAK……………………………………………………………………27

Anna Karenina e Gengis Khan, come ha detto Luttwak. L’attualità si intreccia con la storia in un legame indissolubile. La letteratura invece, come in questo caso, può aiutarci a comprendere il mondo in cui viviamo.
Come in ogni grande narrazione che si rispetti, abbiamo abbandonato il nostro punto di partenza per andare ad esplorare l’economia, la cronaca, la geopolitica, per capire come veniamo informati. Ora vogliamo tornare al nostro punto di partenza, la storia. La storia che passa per le opere e la vita di due grandi scrittori di origine ucraina, ma di fatto patrimonio della cultura russa.

Antonio Bonanata: ho cercato di far capire che anche la cultura è oggetto di manipolazione. Gogol e Bulgakov sono due scrittori nati in Ucraina, ma che, di fatto, fanno parte del patrimonio culturale russo

SERVIZIO CULTURA………………………………………………………………………27

Abbiamo visto come i media hanno raccontato quello che è accaduto e che sta accadendo in Ucraina. Ma come hanno vissuto questi eventi i diretti interessati?

Giulia Sabella: Abbiamo qui con noi degli ospiti: Lara e Lyudnyla sono nate in Ucraina e hanno lasciato il proprio Paese più di dieci anni fa per venire a lavorare qui in Italia. Meroslava e Svitlana invece sono due ragazze giovani, stanno ancora studiando. Anche loro sono nate in Ucraina ma sono cresciute qui a Perugia.
Alessandra Borella: noi le abbiamo incontrate nella loro vita quotidiana, qui a Perugia.

VIDEO PRESENTAZIONE UCRAINE……………………………………………………28

Dibattito con gli ospiti in studio

DOMANDE:
Come avete saputo della crisi in Ucraina?
Quello che leggete sui giornali e vedete in tv è in linea con quanto vi raccontano gli amici e i parenti rimasti in Ucraina?
Dove cercate le notizie? Quali tg? Quali giornali? Quali siti internet? Ma chi ha espresso al meglio ciò che è accaduto in Ucraina?

DIBATTITO

Conclusione di Carlo Freccero

CHIUSURA PUNTATA E SIGLA

Una nota strettamente personale

di Carlo Freccero

Un format dedicato ad una scuola di giornalismo, non può non prendere le mosse che da una riflessione del giornalismo stesso. O meglio, dallo stato attuale del giornalismo.
Come del resto tutte le cose, il giornalismo ha cambiato molte immagini nel corso del tempo.
Pensiamo a due film Holliwoodiani che sintetizzano una visione del giornalismo legata allo spirito del tempo.

Quarto potere (Citizen Kane), di Orson Welles del 1941. Qui la stampa, come riassume il titolo italiano del film, è vista come la gestione del potere. Con i suoi giornali Kane prende posizione su tutti i principali eventi della politica internazionale e ne influenza gli esiti. È una sorta di “burattinaio” dell’opinione pubblica. ‘Tutti gli uomini del presidente’ è un film di Alan J. Pakula del 1976. Lo scenario è totalmente cambiato. Il giornalismo, il giornalismo d’inchiesta, è l’unico strumento con cui è possibile anche per due giornalisti alle prime armi contrastare il gioco complesso del potere, sino a far dimettere il presidente degli Stati Uniti.

Il giornalista è presentato come un eroe che armato solo dei suoi strumenti investigativi, può opporsi come un nuovo Davide a Golia, ai giganti della politica.
Per tutti gli anni della contestazione (gli anni ’70) il concetto di controinformazione rimane un mito ed un faro per il giornalismo e fa della scelta della professione di giornalista, una sorta di vocazione.

Oggi anche il giornalismo è mainstream, cultura di massa, omologazione, allineamento alle opinioni della maggioranza.
Un giornalismo d’inchiesta presuppone una verità da rivelare ed un pensiero critico con cui affrontare le apparenze delle cose.
Tramontato il mito della verità ed emersa con prepotenza la nozione che il vero si identifica con senso comune, l’opinione della maggioranza, il giornalismo perde la sua spinta ideale per diventare uno strumento di fabbricazione e di reiterazione del conformismo e del consenso. Tutti si gettano sulla notizia più diffusa. Nessuno pensa di dover cercare una verità sotto l’apparenza delle cose. Chi riesce ad interagire con l’agenda dei media, ottiene visibilità e credibilità.
Abbiamo oggi sotto gli occhi il fenomeno Renzi. Da semisconosciuto sindaco di Firenze, è riuscito gestendo la comunicazione sulle sue “Leopolde”, a conquistare il centro della scena. Oggi i giornali parlano solo di lui e il suo consenso è in salita.

La grande frattura tra giornalismo d’inchiesta ed informazione mainstream affonda, ancora una volta le sue radici nelle logiche che la televisione commerciale introduce negli anni ’80.
La televisione commerciale deve catturare pubblico, audience, per rendersi gradita agli investitori pubblicitari. Le scelte della maggioranza diventano essenziali. E tutto quello che è minoritario, dalle avanguardie artistiche, al cinema d’autore, al giornalismo d’inchiesta, diventa obsoleto.
Rispetto al giornalismo televisivo, il giornalismo della carta stampata conserva per un certo periodo una propria identità. Oggi il giornalismo delle maggiori testate è un giornalismo mainstream. La riprova è data dal fatto che confrontando l’edizione cartacea ed online dello stesso quotidiano, possiamo constatare che le notizie “minoritarie”, scomode o non allineate al buon senso comune, sono relegate nella versione internet.

E veniamo al nocciolo del problema. La controinformazione, cancellata prima dal giornalismo televisivo e poi dalla stampa, ha oggi una sua rinascita online. L’idea che esista una rete libera da editori e da interessi privati, rende nuovamente possibile la ricerca di una maggiore oggettività, il confronto con l’altro, quello che per i media mainstream può essere il “nemico”.

Da tempo tutte le insurrezioni, le rivolte, le proteste minoritarie passano attraverso la rete.
Grillo ad esempio esalta la rete come unica forma di democrazia. La rete è l’unica possibilità che ci rimane di controinformazione come ci insegna il fenomeno Wikileaks. Ma purtroppo è anche la maggior matrice di disinformazione. Le bufale della rete, i sabotaggio dei troll, sono purtroppo egualmente noti a tutti. La verità è accessibile, ma mescolata a false verità, simulacri, deliri, che rendono difficile separare gli eventi reali dalla paranoia degli internauti che tendono a vedere ovunque complotti.

E veniamo al format. La prima cosa su cui abbiamo pensato di lavorare è il confronto tra diversi tipi di informazione: l’informazione televisiva, necessariamente mainstream, l’informazione scritta, sospesa tra il mainstream e la ricerca dello scoop ed infine il Net come fonte di notizie, da verificare e controllare.

L’esito è un programma in cui un evento non può avere una sola lettura, non solo perché si interpellano esperti di diversa formazione e cultura, ma anche perché si lavora sulle differenze dei media: l’inclusività e il conformismo televisivo, l’ibridazione di una stampa sospesa tra mainstream ed inchiesta, tra infotainment ed approfondimento. Ed infine il Net, in cui c’è tutto, il buono ed il cattivo, la verità e la lettura paranoica della verità.

L’esito di una notizia multisfaccettata, presentata da angolazioni diverse e quindi contraddittorie, ha lo scopo di farci riflettere sulla complessità degli eventi.
Vuol restituire al giornalismo la sua componente critica. La ripetizione funziona come omologazione dell’opinione pubblica. La differenza tra tesi opposte ci restituisce una sorta di libero arbitrio, una possibilità di scelta e di schieramento.

Mescolate, mescolate, qualcosa resterà

Un tempo si chiamava “sincretismo”. Oggi si potrebbe chiamare “mash-up”. E’ il vortice degli ibridismi, delle mescolanze, delle contaminazioni, delle fusioni. Non solo delle fonti, ma anche dei linguaggi e dei contenuti. La rete è anche questo capogiro, questa Babele, un regno dell’eccesso e delle franchigie, ma anche una potente energia che scardina sistemi e conservatorismi, e che – con una sorta di illusione faustiana di eternità – dissemina frammenti eternamente manipolabili e rinnovabili. Il brano che segue è tratto dall’introduzione del libro “Blog Notes. Guida ibrida al passato presente” di Piero Gaffuri, pubblicato da Lupetti-Editori di Comunicazione, con prefazione dell’antropologo francese Marc Augé.

blog notesdi Piero Gaffuri

L’epoca delle scoperte geografiche è finita ma c’è un territorio nel quale la dimensione spazio temporale è pressoché illimitata, che consente nuovi generi di ricerche e permette agli esploratori di ottenere sorprendenti risultati, questo ambito innovativo è Internet, la rete. Internet non è semplicemente un’architettura tecnologica ma un ambiente sociale ricco di contenuti che aumentano ogni giorno di numero e volume. Un’evidenza non ancora nota a tutti.
A questo proposito mi piace raccontare cosa è accaduto mentre ero alla ricerca dell’editore del mio ultimo libro Webland, dalla televisione alla metarealtà. Avevo inviato le bozze a numerose case editrici che, a mio parere, potevano essere interessate alla pubblicazione. Molti hanno cortesemente risposto che il testo non rispondeva ai requisiti della loro linea editoriale, altri, invece, non hanno risposto affatto. Un editore ha dato una risposta singolare: non poteva pubblicare il libro perché non disponeva di una collana di informatica.
Questo episodio la dice lunga su quanto peso abbiano i luoghi comuni anche negli ambienti che dovrebbero essere culturalmente più attrezzati. Sarebbe sufficiente cercare la parola Internet su Wikipedia: “Internet (contrazione della locuzione inglese interconnected networks, ovvero reti interconnesse) è una rete mondiale di reti di computer ad accesso pubblico, attualmente rappresentante il principale mezzo di comunicazione di massa, che offre all’utente una vasta serie di contenuti potenzialmente informativi e servizi”.GAFFURI

Limitare Internet all’informatica sarebbe come limitare la radio alla modulazione di frequenza, il cinema al nastro di triacetato di cellulosa, la televisione alla diffusione e trasmissione del segnale dimenticando che sono tutti mezzi di comunicazione di contenuti.

E’ vero comunque che negli ultimi anni Internet ha subito notevoli trasformazioni, tecnologiche e contenutistiche e non è stato facile seguirne le dinamiche evolutive visto che sono avvenute in tempi molto ristretti.
La stima di Nielsen sul numero di blog pubblici esistenti al mondo nel 2011 era di centocinquantasei milioni, i siti web sono attualmente seicento milioni e gli indirizzi Ip quasi un miliardo, considerando che la popolazione della terra è di circa sette miliardi di individui si ha presto un’idea di come sia aumentata in pochi anni la diffusione della rete.

Questo gigantesco sistema di connessioni, che si alimenta di continuo di immagini, informazioni, contenuti, andando a costituire un enorme magazzino di memoria e cultura globale, ha un forte impatto sulla dimensione simbolica della contemporaneità. In primo luogo perché consente a tutti di fruire di contenuti, in parte liberi, ma soprattutto di produrli, permette quindi di partecipare alla nuova dimensione mediatica, senza essere intermediati, rende possibile forme di espressione illimitata.

Michel Maffesoli, giunge a sostenere, ricordando Lèvi-Strauss, che si possa parlare di un’astuzia della tecnica: “Si può pensare, ecco cosa potrebbe essere l’ordine simbolico postmoderno, ad un’astuzia della tecnica che cortocircuita la dominazione tecnocratica (…), punto di reversione in cui si esprime la sinergia tra l’arcaico e lo sviluppo tecnologico”.
La tecnica che riscopre la sua origine greca, τέχνη (tekhnē), arte, nel senso di saper fare e, in questo nuovo contesto, mette il saper fare in stretta combinazione con la capacità di usare la rete, quindi leggere e pubblicare. Non so quanti post siano stati pubblicati lo scorso anno o quanti upload di video vi siano stati, credo comunque un numero molto elevato.

Una cosa è certa, non è possibile rimanere indifferenti all’intensità di questi processi, tanto meno sotto il profilo dello sviluppo e della diffusione dei contenuti culturali.
Impossibile sottrarsi al cortocircuito, un generale movimento ove si assiste al mescolarsi di tensioni e tendenze, perché il motivo dominante della rete è il mash up, l’ibridazione di forme e contenuti, un andamento centrifugo che riduce le distanze, anche trasformando la tecnica in arte e l’arte in un processo che descrive il passaggio.
internet_e_banda_larga__italia_sotto_la_media_1949Questa la ragione per cui le pagine che seguono sono nate in rete e oggi diventano un libro, un modo originale di invertire l’abituale linearità dei comportamenti.
Chiunque può trovare, leggere, copiare, sfruttare, ridurre, ampliare a suo piacimento il contenuto dei paragrafi di buona parte di questo libro, basta aprire la pagina del mio blog e fare un copia e incolla.

Ma è proprio nella precarietà che essi trovano il senso e la ragione della loro presenza, perché rappresentano storie di vite dedicate all’arte, alla musica, alla letteratura, al pensiero e i pezzi, i frammenti dell’esperienza hanno valore solo quando vengono fatti propri da altri, in qualche caso metabolizzati. Inoltre si scopre che gli artisti più innovativi del recente passato e del presente manifestavano ed esprimono forti tendenze all’eclettismo, al mescolamento degli stili e degli spunti, infatti vi sono pittori cineasti, musicisti pittori, pittori poeti o poeti pittori e vi sono persone che confondono le loro identità al punto tale da non essere riconoscibili.

Il mescolamento, il mash up consente la sovrapposizione delle categorie, l’annullamento degli specialismi, mettendo in discussione l’organizzazione del lavoro tecnocratico, inclinando il piano dell’apollineo verso il dionisiaco, dando voce agli spazi dell’eccesso dentro la prigione del progetto. Ne emerge un quadro singolare, nel quale sono i lettori, gli utenti a definire le priorità, e attraverso questa scelta a costruire la scansione dei paragrafi, i capitoli, a dare significato al testo.
E non è un caso, in un’epoca contrassegnata dallo sviluppo scientifico e tecnologico, sia la Natura a tornare al centro dell’interesse, una natura originaria necessariamente liberata dai vincoli delle necessità umane, un ecosistema verso il quale adesso riversiamo amore senza paura di provare dolore, capace quindi di nutrire le arti, i sensi, le coscienze, la vita.

Oltre la Natura emerge l’interesse verso la condivisione delle arti, meglio un appropriarsi degli elementi fondanti delle arti, che non sono più vissute come lontane, limitate ai giochi di una élite sofisticata ma socialmente condivisibili e utilizzabili, partecipabili e non solo sotto l’aspetto della fruizione.
La riscoperta delle emozioni si coniuga con la voglia e la necessità di liberarsi dalle convenzioni, dal grigiore del piano di vita e dai suoi passaggi obbligati dettati dai consigli ragionevoli delle esperienze pregresse.
L’erba dei giardini dell’eccesso prova a diffondersi, a uscire dai confini, a superare gli steccati invadendo campi innaturalmente ordinati, un’energia endogena che per contagiare non comunica ma sfrutta processi e andamenti di contaminazione naturale, un morbo buono che si trasmette anche imitando la bellezza.

I precedenti sistemi di comunicazione distribuivano gli stessi contenuti, nel medesimo modo e a orari prestabiliti, in rete invece assistiamo a processi di disseminazione che seguono andamenti stocastici, non è l’interesse del produttore a dettare il tempo e il modo della diffusione ma il fascino dell’utilizzazione.
Il principio attivo quindi non è più semplice fruizione bensì la comunione: condivisione comunitaria del contenuto.
E’ per questa ragione che un contenuto pubblicato da tempo viene improvvisamente notato, visitato e condiviso. Una mostra, una conferenza, un componimento, chissà? Essenziale che il contenuto sia fatto proprio, riveli un’insita effervescenza e l’innata tendenza a diffondersi.

Non posso sapere quale sarà il destino del mio blog, certamente per ora continuerò, poi, un giorno, come tutte le cose avrà fine, ma le sue note rimarranno in rete, in paziente attesa di una spinta, di un alito di vento che possa liberare frammenti di testo e di scrittura.
La mia speranza è che i testi, i frammenti fungano da stimolo per inventare qualcosa di nuovo o più semplicemente per decorare una maglietta. “Internet potrebbe essere il luogo in cui, grazie ai siti comunitari, ai forum di discussione, ai blog, orkut e social network, si diffondano i diversi saperi, i movimenti di ribellione, le manifestazioni spontanee (flash mob), gli scambi commerciali, erotici, religiosi e filosofici” (Michel Maffesoli, Matrimonium. Breve trattato di Ecosofia).

Quindi un nuovo modo di navigare e scoprire un nuovo mondo, nel quale possiamo avere l’incredibile opportunità di rovesciare i paradigmi del vecchio, evitando accuratamente di commettere errori quando cercheremo di dar vita a forme alternative di comunicazione e di socialità.

Piero Gaffuri, scrittore ed esperto di new media, è amministratore delegato di Rai Net.

Il suo blog è: themadjack.com

 

Dal nostro “wanted” a Lisbona

di Dennis Redmont

redmontLa mia prima esperienza da corrispondente estero per l’AP è iniziata nel 1965 a Lisbona, in Portogallo. Ero il più giovane corrispondente nella storia dell’AP, e mi trovavo nel paese guidato dal dittatore Antonio de Oliveira Salazar, un economista ininterrottamente al potere dal 1932 che aveva teorizzato l’“Estado Novo”, ossia ladeclinazione portoghese del fascismo di Benito Mussolini.

Come in tutte le dittature che si rispettino, la stampa era sottoposta a una ferrea censura. Non è un caso, dunque, che l’opposizione e il movimento studentesco anti-dittatura leggessero la stampa straniera per informarsi su quello che realmente accadeva nel paese.

Il 28 febbraio 1966 Le Monde pubblica un mio lancio d’agenzia scritto per AFP-AP. Il pezzo parla di due studenti arrestati per attività sovversiva a Lisbona e ricoverati in ospedale in gravi condizioni, probabilmente a seguito di un pestaggio delle forze dell’ordine. Uno degli studenti è Maria Antonetta Coelho, 19 anni, che avrebbe ingerito pezzi di vetro in un presunto tentativo di suicidio. L’altro studente, il 24enne Ruy Despiney, ha una frattura vertebrale.

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Lisbona, murales dedicato a Fernando Pessoa

Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, mentre stavo tornando al mio ufficio in Praca da Alegria (Piazza della Felicità), incontrai i colleghi Marvine Howe del New York Times e l’italiano Aldo Trippini di United Press. “Andiamo a pranzo”, mi dissero. Declinai l’invito (avevo appena pranzato), ma i due insistettero: a quel punto capii che dovevano dirmi qualcosa di delicato.

Non appena svoltammo l’angolo del palazzo, i colleghi mi riferirono che otto agenti della temibile Policia Internacional de Defesa Do Estado (PIDE) mi stavano cercando e che erano già saliti in ufficio chiedendo dove fossi. Fortunatamente, gli agenti non sapevano che aspetto avessi. Io, però, sapevo che da polizia politica del genere non ci si poteva aspettare nulla di buono.

Il PIDE era un corpo di polizia molto detestato in Portogallo, e veniva ripetutamente indicato come il responsabile di torture, uccisioni e sparizioni di attivisti. Oltre alle attività nazionali, il PIDE operava anche nelle colonie portoghesi (Angola, Mozambico, Guinea, Capo Verde, ecc.), dove gruppi di ribelli si stavano rivoltando contro il governo di Lisbona con il supporto del blocco sovietico.

In tutto ciò, un sistema di censura capillare impediva che uscissero notizie sulle guerre coloniali e sulle attività dell’opposizione. A volte le bozze degli articoli dovevano essere spediti alla polizia per l’approvazione, e spesso e volentieri i censori erano fisicamente all’interno delle redazioni dei giornali portoghesi per intimidire i giornalisti.

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Lisbona, la sede del PIDE

Questa convocazione del PIDE, tuttavia, era tutta un’altra storia rispetto ai “richiami” ufficiali. Dopo aver contattato l’ambasciatore americano in Portogallo, George W. Anderson, quest’ultimo mi invitò a passare una notte in ambasciata a puro titolo precauzionale. Il ministro degli esteri portoghese, infatti, aveva fatto allusioni all’ambasciatore Anderson sulla mia presunta “colpevolezza”, e aveva anche aggiunto in tono vagamente minaccioso di non poter garantire la mia incolumità fisica una volta che il PIDE fosse riuscito a trovarmi.

Il mattino successivo, accompagnato da un funzionario del consolato, mi recai spontaneamente al quartier generale del PIDE, situato in Rua Antonio Maria Cardoso. L’edificio – stando ai racconti di militanti comunisti/socialisti e degli studenti – era un vero e proprio centro di tortura, sia fisica che psicologica. Avevo sentito i loro racconti durante le mie visite al “Tribunal da Boa Hora”, che mi servivano a capire in che condizioni operava un’opposizione sotto una dittatura.

Non sapevo ancora che cosa gli agenti cercassero da me; e questo, unito al fatto che avevo passato una notte praticamente insonne, mi rendeva piuttosto nervoso. Una volta entrato nel quartier generale, venni portato in una stanza insonorizzata (le pareti erano ricoperte di un materiale simile a quello dei materassi) con un tavolo al centro e due agenti che mi stavano aspettando. Pensai che volessero mettermi in prigione con qualche accusa falsa o che, se tutto andava bene, sarei stato messo sul primo aereo disponibile e cacciato dal paese.

I due agenti utilizzarono subito la tattica del “poliziotto buono/poliziotto cattivo”, cercando di mettermi in difficoltà e sommergendomi di domande sulla mia vita privata. Ricordo distintamente una lampadina che pendeva dal soffitto e dei suoni attutiti che provenivano da qualche parte, probabilmente fatti apposta per rendermi ancora più nervoso.

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Rua Antonio Maria Cardoso, targa in memoria di vittime del PIDE

L’interrogatorio andò avanti per molte ore in una piccola stanza, con una processione costante di agenti del PIDE. Tra i poliziotti che mi facevano domande (molte erano sulla mia vita privata) riconobbi molti torturatori. A un certo punto ebbi anche “l’onore” di conoscere Antonio Silva Pais, il capo del PIDE, che non riusciva a capacitarsi di come i giornalisti stranieri – che erano trattati così bene dal governo portoghese – potessero scrivere articoli così critici sul paese. Pais non disse che le autorità portoghesi avevano abbandonato l’idea di espellermi – o di causarmi conseguenze più “spiacevoli”. Mi sembrò tuttavia di capire che la sua presenza non indicava la volontà di arrestarmi o espellermi dal paese.

Nel frattempo – ma non potevo saperlo all’epoca – anche il corrispondente dell’AFP, Pinto Basto, era sotto interrogatorio per lo stesso articolo. A differenza mia, però, Basto era stato direttamente arrestato. In carcere, il PIDE gli mostrò due persone “travestite” da studenti per dimostrare che non era successo nulla. Naturalmente, quelle due persone non erano i due studenti torturati.

Dopo l’incontro con Silva Pais fui lasciato libero di andarmene dal quartier generale del PIDE. Il motivo di questo “trattamento di favore” (si fa per dire) era probabilmente da ricercarsi nel fatto che il governo portoghese – in un momento in cui il supporto degli Stati Uniti e della Nato era cruciale alla sua sopravvivenza politica – non voleva ulteriormente inimicarsi la stampa straniera e il governo americano.

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Il dittatore portoghese Antonio De Oliveira Salazar

L’Angola, il Mozambico e la Guinea diventarono indipendenti solo verso la metà degli anni ’70, ma rimangono a tutto oggi profondamente segnate dalle lotte interne.

Nei mesi seguenti venni pedinato e controllato a vista da vari agenti che si trovavano nel palazzo in cui lavoravo. Ricevetti anche numerose lettere anonime (scritte, immagino, direttamente dal PIDE) con commenti a dir poco sgradevoli sulla mia vita privata e sulla mia attività professionale. Periodicamente la polizia politica mi convocava e chiedeva di compilare varie pratiche burocratiche: si trattava a tutti gli effetti di una forma nemmeno troppo implicita di intimidazione.

A seguito dell’“incidente” il capo-ufficio dell’AP a Madrid, Harold Milks, suggerì all’ufficio centrale dell’AP di New York di farmi trasferire con discrezione in un altro paese. Scrissi subito al presidente  della sede di New York che una simile decisione avrebbe creato un pericoloso precedente e che preferivo rimanere a Lisbona, anche senza scrivere nulla, per dimostrare che gli organi di stampa americani non si facevano mettere sotto pressione da nessun governo.

Il presidente mi diede ragione e mi suggerì di scrivere tutto quello che vedevo. Nell’estate del 1967, un anno dopo l’incontro ravvicinato con la polizia politica, venni trasferito a Roma per lavorare come corrispondente e inviato dall’Italia.

Nonostante nel corso della mia carriera sia stato in molte situazioni pericolose ed abbia avuto a che fare con dittature militari particolarmente feroci (come quella del Brasile e dell’Argentina negli anni ’70, ad esempio), ho sempre considerato il faccia a faccia con il PIDE una sorta di “battesimo di fuoco” nel mondo del giornalismo. All’epoca, infatti, avevo solo 23 anni ed era il mio primo incarico come corrispondente estero.

Quello che ho imparato da questa esperienza, e che ho sempre cercato di applicare nel corso della mia carriera, è di verificare rigorosamente le informazioni utilizzando più fonti, di cercare di rispettare le leggi locali per non essere falsamente accusato di qualcosa, di affidarsi ai colleghi e, infine, di prendere gli episodi spiacevoli con umorismo e leggerezza.

© Dennis Redmont 2014

www.dennisredmont.com

Twitter: @dennisredmont

Le bombe di carta

di Dario Biocca

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Militari britannici ‘armano’ una bomba T-3 sostituendo all’esplosivo giornali e libri (agosto 1944)

Numerosi articoli, saggi e libri, apparsi recentemente, ci aiutano a conoscere le impressioni che gli americani ebbero dell’Italia quando i contingenti della Settima armata sbarcarono in Sicilia nel luglio del 1943. Appena le forze alleate cominciarono a risalire la penisola, gli ufficiali del Psychological Warfare Branch assunsero il delicato compito di controllare la circolazione delle notizie, censurare i giornali, revocare le autorizzazioni alle testate politicamente “sospette” e adottare misure punitive per quanti, tra i giornalisti, si fossero macchiati di “crimini fascisti”.

Conosciamo il nome e il grado degli ufficiali del PWB, il loro addestramento, le iniziative assunte in zone di guerra e nelle aree liberate, i loro dubbi di fronte ai giornalisti italiani troppo repentinamente passati all’antifascismo. Dagli archivi sono emerse anche le improbabili autobiografie che redattori, cronisti e direttori presentarono al PWB per nascondere il loro passato descrivendosi come vittime invece che strumenti delle ventennali campagne fasciste di propaganda politica o razziale. Era l’inizio di una lunga vicenda di rielaborazione collettiva del passato di cui ha scritto di recente con accortezza, tra gli altri, Pierluigi Battista in Cancellare le tracce.

Assai meno conosciuta in Italia è invece la vicenda che condusse, dopo l’ingresso degli Stati Uniti in guerra, alla nascita del PWB e al dispiegamento di un formidabile apparato di propaganda e contropropaganda fondato sulla carta stampata e la radio. Scambiata a lungo (e ingenuamente) per il prodotto di un generico entusiasmo diffuso tra gli americani per la guerra contro il fascismo e il nazismo, che avrebbe “convertito” il nemico prima ancora di combatterlo, in realtà il PWB fu il risultato di una saldatura tra diversi elementi, esperienze e iniziative già avviate negli Stati Uniti da alcuni anni. Regista di questa operazione, oggi lo sappiamo in dettaglio, fu la Fondazione Rockefeller che già negli anni Trenta finanziò ricerche, allora considerate pionieristiche ed eticamente discutibili, su come i media potessero intervenire per proteggere il pubblico americano dal contagio delle ideologie totalitarie. Non era, in termini teorici e pratici, un compito facile.

Per alcuni anni, alla vigilia della guerra, la Fondazione Rockefeller organizzò seminari e incontri (segreti) tra accademici, giornalisti, leader politici e opinion makers per meglio delineare i meccanismi psicologici che conducevano (e conducono) la mente a creare immagini e associarle tra loro così come, secondo la scuola psicologica “transattiva” allora prevalente in America, ciascuno è indotto a fare per ogni elemento estraneo alla propria, diretta esperienza. Si tratta di “immagini della mente”, secondo l’espressione di Walter Lippmann, elaborate per rappresentare luoghi, persone, culture, ideologie, tutto ciò che conosciamo ma è lontano dalla nostra vita di ogni giorno. Cancellando, modificando o creando nuove immagini, in un’azione concertata tra i più pervasivi mezzi di informazione di massa, gli uomini della Rockefeller speravano di salvare l’America dall’antisemitismo e dall’odio ideologico. Alla fine, osservarono i critici, si trattava di carpire il segreto della propaganda dei regimi totalitari, perfezionarne il metodo e modificarne i contenuti fino a ottenere l’effetto opposto. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale le iniziative della Fondazione si intensificarono e diedero vita a una vera campagna, organizzata in segreto, per difendere sulla stampa e alla radio, con ogni mezzo, i valori della democrazia.

Concordare una strategia segreta tra direttori, redattori e corrispondenti di testate giornalistiche era un metodo “fascista” di difendere la libertà? Secondo alcuni lo era ed era per questo inaccettabile. Presupponeva una visione stereotipata del nemico, una caricatura della sua identità e della sua ideologia, persino un’esasperazione della sua viltà e immoralità – anche Il grande dittatore, il capolavoro di Chaplin uscito a New York nel 1940, fu allora oggetto di simili critiche. Ma il metodo adottato dalla Fondazione Rockefeller alla fine produsse risultati persino superiori alle aspettative e protesse efficacemente l’America; ebbe successo, in particolare, con gli immigrati provenienti dai Paesi più ostili agli Stati Uniti, tra i quali gli italoamericani, i quali a grande maggioranza scelsero la loro nuova patria e la difesa della democrazia.

Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra il concetto di opinione pubblica e il ruolo dei media nella manipolazione delle “immagini della mente” erano già stati esaminati attentamente da una nutrita pattuglia di studiosi e scienziati della comunicazione fino a definire, sperimentare e misurare un metodo efficace per influenzare il pubblico, anche il più avverso. Lo stratega che per primo applicò il metodo al conflitto mondiale fu lo psicologo Hadley Cantril, fondatore del Princeton Listening Project poi finanziato anche dalla Cia. Cantril era un entusiasta sostenitore della radio come strumento di propaganda, utile a introdurre in territorio nemico i “semi” della democrazia americana. Tutti nel mondo, a suo avviso, li avrebbero accolti e condivisi poiché, così a lui sembrava, erano valori universali. Quanti vi si opponevano erano solo male informati; il sistema (occulto) della comunicazione doveva persuaderli escogitando metodologie appropriate e creando “immagini della mente” sempre più efficaci. Il successo del PWB, misurato nel corso della guerra e negli anni successivi, fu straordinario. Nessun Paese come gli Stati Uniti d’America riuscì a proiettare di sé una immagine così accattivante, persuasiva, generosa e per molti aspetti autentica.

L’altro stratega dell’uso bellico del sistema messo a punto dalla Fondazione Rockefeller fu William Donovan, il celebre capo dei servizi di informazione americani dispiegati sui fronti di tutto il mondo. In pochi mesi “Bill” Donovan rivoluzionò il reclutamento non più di “spie”, intese come semplici informatori infiltrati tra le file nemiche, ma di personalità autorevoli, competenti e influenti – soprattutto giornalisti. A capo della rete europea di spionaggio Donovan chiamò quindi Allen Dulles, un conoscitore attento dell’Italia e amico personale di numerosi esuli antifascisti, autorità vaticane e, naturalmente, giornalisti. Fu anche per sua iniziativa che dai cieli di tutta Europa, invece di bombe incendiarie ed esplosivo, a volte caddero sulle città nemiche giornali, volantini, riviste e libri.

Molti elementi ancora sono emersi dai più recenti lavori storiografici sul PWB. Gli ufficiali inviati in Italia, in particolare, espressero dubbi sulla conversione delle testate e dei giornalisti alla democrazia e ne riferirono ai comandi militari e a Washington. Tuttavia i più accorti tra loro si persuasero che non si trattava di machiavellici accomodamenti né di menzogne; era invece un fenomeno più complesso, di cui anche la Fondazione Rockefeller avrebbe preso atto. L’adesione al fascismo da parte dei giornalisti italiani era stata davvero superficiale e, per alcuni, persino insignificante; tuttavia, così anche l’adesione alla democrazia sarebbe stata superficiale e, per alcuni, insignificante. In Italia, conclusero i responsabili del PWB, i giornali esercitavano un potere legittimato dai partiti politici e dai grandi gruppi industriali. Malgrado i mutamenti introdotti nel 1944 nella struttura e organizzazione dell’Albo dei giornalisti, presto il Parlamento avrebbe reintrodotto le regole del passato, incluso il “fascistissimo” Ordine dei giornalisti – come in effetti avvenne nel febbraio del 1963. Dietro questo ritorno al passato, tuttavia, non vi era nostalgia per il regime di Mussolini ma la persuasione che i partiti e il Parlamento, non la società civile nelle sue molteplici componenti, dovessero esercitare un controllo vigoroso e verticale sull’informazione. Era una visione della democrazia e della libertà di stampa molto diversa da quella americana. Il PWB, dunque, poteva esportare la democrazia in Italia ma vi sarebbe riuscito solo in parte; dopo venti anni di dittatura, gli italiani intendevano rieducarsi alla libertà ma lo avrebbero fatto da soli, e a modo loro.

Fact Checking

Programma:

  • Definizione e tecniche di Fact Checking
  • Verifica dell’indipendenza e della competenza della fonte
  • Le esperienze internazionali e quelle italiane
  • Reporter uguale fact checker

Durata: 4 ore

Crediti FPC: 8 (otto)

Data di svolgimento: 

      • Sabato 21 giugno, dalle 9 alle 13:30, Roma, presso Hotel Crowne Plaza (Via Aurelia Antica, 415)

Costo di partecipazione: euro 100 (cento), IVA inclusa

Per informazioni e iscrizioni:
e-mail: segreteria@centrogiornalismo.it; telefono: 0755911211

Docente:

    • Pier Luca Santoro

Pier Luca Santoro è un esperto di marketing, comunicazione e Sales Intelligence che fa parte di Datamedia Hub. È stato “temporary social media editor” al quotidiano “La Stampa”. Dal 1998 opera come consulente per progetti di posizionamento strategico, organizzazione, comunicazione e formazione per aziende pubbliche e private, associazioni di categoria e amministrazioni pubbliche. Dal 1987 in poi é stato responsabile del marketing e dell’organizzazione commerciale di grandi imprese (Star, Giuliani, Bonomelli). Sperimentatore e creativo ha sviluppato un’esperienza significativa nell’ambito dell’edutaitment (education + entertainment) con particolare riferimento ai mass communication games. Ha pubblicato “L’edicola del futuro, il futuro delle edicole. Ovvero che fine farà la carta stampata” (Informant, 2013).

Pubblica Amministrazione e Comunicazione

Programma:

  • L’addetto stampa e il rapporto con i media
  • L’addetto stampa e il rapporto con la dirigenza pubblica
  • Le novità dell’ufficio stampa pubblico: dalla comunicazione cartacea a quella online e multimediale
  • Le differenze tra addetto stampa e portavoce

Docenti: 

Roberto Segatori
Emanuele Imperiali D’Afflitto
Brunella Giugliano

Durata: 4 ore

Crediti FPC: 8 (otto)

Date di svolgimento: 

  • Sabato 31 maggio, dalle 9 alle 13:30, Roma, presso Crowne Plaza (Via Aurelia Antica, 415)
  • Sabato 7 giugno, dalle 9 alle 13:30, Ponte Felcino – Perugia, presso il Centro Italiano di Studi

Costo di partecipazione: euro 100 (cento), IVA inclusa

Per informazioni e iscrizioni:
e-mail: segreteria@centrogiornalismo.it; telefono: 0755911211

Il giornalista editore di sé stesso

Programma:

  • Come farsi trovare in rete: introduzione al linguaggio SEO (Search Engine Optimization), le “regole” per indicizzare al meglio un articolo per il web;
  • Come usare WordPress: modifica dell’aspetto del sito/blog, temi, plug-in e widgets, tag e categorie;
  • Come costruirsi un “personal brand” grazie ai social network;
  • Introduzione ai tool gratuiti su Internet: software per il fotoritocco, per creare infografiche e per il montaggio audio-video.

Docenti:

  • Davide Costantini
  • Antonino Caffo
  • Federico Chesi
  • Pino Bruno

Durata: 4 ore

Crediti FPC: 8 (otto)

Date di svolgimento:

  • Sabato 17 maggio, dalle 9 alle 13.30, Ponte Felcino – Perugia, presso il Centro Italiano di Studi Superiori per l’Aggiornamento e la Formazione in Giornalismo Radiotelevisivo (Via Puccini, 253)
  • Sabato 14 giugno, dalle 9 alle 13:30, Roma, presso Crowne Plaza (Via Aurelia Antica)

Costo di partecipazione: euro 100 (cento), IVA inclusa

Per informazioni e iscrizioni:
e-mail: segreteria@centrogiornalismo.it; telefono: 0755911211

Data Journalism

Programma

  • Le fonti dei dati: dagli “Open Data” rilasciati dalle Pubbliche.
  • Amministrazioni e da soggetti privati, ai dati tradizionali. Formati, licenze, utilizzi.
  • Il Workflow del Data Journalism: ricerca dei dati, verifica e organizzazione, analisi, incrocio con altri dati, visualizzazioni e Storytelling. Gli step indispensabili nell’attività del Data Journalist.
  • Project Based Learning: dalla teoria alla pratica. Workshop operativo per attraversare il Workflow dei dati.

Docenti

  • Mauro Andrea Nelson
  • Carlo Romagnoli
  • Alessio Cimarelli
  • Jacopo Ottaviani

Durata: 4 ore

Crediti FPC: 8 (otto)

Date di svolgimento: 

  • Sabato 10 maggio, dalle 9 alle 13:30, Ponte Felcino – Perugia, presso il Centro
  • Sabato 7 giugno, dalle 9 alle 13:30, Roma, presso Crowne Plaza (Via Aurelia Antica, 415)

Costo di partecipazione: euro 100 (cento), IVA inclusa

Per informazioni e iscrizioni:
e-mail: segreteria@centrogiornalismo.it; telefono: 0755911211