Metti un po’ di coach nel manager

E’ un’arte difficile la guida degli uomini e delle donne in un’impresa. Si mescolano attitudini al comando e capacità di empatia. Il più grande dei condottieri, Alessandro Magno, comandava con l’esempio. Era sempre alla testa dei suoi militi e il primo nello scontro frontale con il nemico. Alessandro era capace di indulgenze, ma non sopportava di essere contraddetto, nemmeno dai suoi generali, soprattutto se non avevano chiara, come l’aveva lui, l’idea della battaglia. Per un accesso d’ira uccise con una lancia uno dei suoi amici più cari, Clito.

Luca Varvelli

Luca Varvelli

Ai manager, per fortuna, non è richiesto di conquistare tutto il mondo conosciuto, né è permesso l’uso delle lance. Un manager deve avere il senso delle proporzioni. In un vecchio manuale scritto dal prelato francese Gastone Courtois, “L’arte di essere capo”, si suggerisce di non rendere grottesca la propria autorità: “La maggior disgrazia per un capo è la posa di parlare e di comportarsi da capo”. Per misurare le doti di un manager, dice il sociologo Francesco Alberoni, basta soppesare le qualità dei suoi collaboratori: più sono mediocri, più il manager è mediocre. I manuali che indicano la via maestra ai manager che vogliono migliorare se stessi, contengono anche ricette spietate, spesso ammantate di virtù. In una guida per la “organizzazione perfetta” scritta da un dirigente d’azienda che trae ispirazione dalla regola benedettina, si consiglia al manager la “regola del silenzio” applicata alla gestione delle risorse umane. Se un dipendente ti scrive, ti interpella, chiede spiegazioni e ti inonda di e-mail, non gli rispondere! Il manager non solo deve pesare le parole ma deve “creare” il silenzio intorno a sé, questo il consiglio. Più che regola del silenzio si tratta di un’arma: l’arma dell’oblio. E’ una ricetta che, naturalmente, non ci piace, a meno che il dipendente non sia un inguaribile disturbatore che reclama diritti senza avere alcun senso del dovere.

Laura Arman Varvelli

Laura Arman Varvelli

Torniamo allora ad Alberoni, che nel suo “L’arte del comando” fissa una regola etica che ci piace: “Il leader è, prima di tutto, il custode della meta, colui che ricorda e indica a tutti dove si deve andare, e controlla che la rotta venga tenuta. Egli deve trasmettere, a ogni livello dell’organizzazione, il senso della missione, il significato del compito e il senso del dovere. E, per farlo, deve crederci profondamente. Nessuno trasmette modelli se non li pratica personalmente. Se non dà l’esempio. E’ con la sua energia, con la sua fede, con il suo esempio, creando simpatia, fiducia, entusiasmo nei collaboratori, che li porta naturalmente a mettere a frutto tutte le loro energie e la loro intelligenza.”

Lo sforzo del manager di portare il gruppo, tutto il gruppo, a centrare l’obbiettivo, in fondo è anche “politica”. Citiamo Don Milani dalla celebre “Lettera a una professoressa”: “Insegnando imparavo tante cose. Per esempio ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Il bravo manager non deve macchiarsi di “avarizia” quando motiva e trascina il gruppo, deve temperare il suo efficientismo con un po’ di empatia, deve provare a coinvolgere, a includere, e deve essere anche un po’ maestro, un po’ allenatore, un po’ coach. Ma in che misura il manager deve essere anche un po’ coach? Quel po’ si può quantificare?

4 TrainingLo abbiamo chiesto al Gruppo Varvelli, il gruppo che, con base a Torino, è specializzato da decenni nella ricerca applicata al management e nella diretta formazione dei manager (preziosi i loro corsi e i loro manuali pubblicati per le edizioni de “Il Sole 24 Ore”), e che di recente ha anche messo a punto una App chiamata “4 Training”, una sorta di “integratore energetico (così la definiscono) di consigli, ricette, frasi, citazioni, video e test per costruire la propria personale strada verso il successo e il potenziamento delle proprie capacità”.

Qui di seguito Luca e Laura Varvelli, seconda generazione del gruppo Varvelli, ci danno le misure e rispondono alla nostra domanda: sì, c’è una percentuale di “valore” che il manager può “spostare” dal management al coaching senza perdita di rendimento. Anzi, con profitto.

 

 

di Luca e Laura Varvelli

C’è differenza fra “fare il coach” e “fare il manager”? La differenza già si legge nella definizione del ruolo.
Il “coach” (in italiano: l’allenatore) è colui che dedica tutto (o quasi tutto) il suo tempo alla buona tenuta sul campo degli uomini (o delle donne) che gli sono stati assegnati (o che egli ha scelto personalmente per vincere la sfida).

Li conosce uno a uno; è al corrente delle loro problematiche personali e professionali; egli sa che il suo primo obiettivo, prima ancora di vincere la sfida sul campo è quello di ottenere una buona integrazione fra caratteri diversi, fra personalità diverse, fra culture diverse.

Egli è rispettato perché, per la sua storia e per i suoi atteggiamenti, ha autorevolezza nella gestione del fattore umano (egli sa motivare) e nella conoscenza dei metodi e delle tecniche specifiche che devono essere praticate (egli sa insegnare).

Il “coach” vive costantemente a fianco dei suoi uomini (e delle sue donne); rispetta le singole specializzazioni e professionalità e non si sostituisce mai agli specialisti ed ai professionisti nel loro operare quotidiano.

Il “buon allenatore” è colui che riceve l’incarico di allenare un gruppo di individui ognuno con un suo rendimento base e che sa che nell’arco di un tempo prestabilito deve portarli ad un rendimento maggiorato.

Attraverso il miglioramento della loro prestazione e all’aumento della loro motivazione e convinzione al ruolo vincerà la sfida.

Il “manager” (dal latino: “manus agere” che tradotto in italiano corrisponde a: “maneggione”) è colui che dedica tutto (o quasi tutto) il suo tempo alla gestione economica delle risorse che gli sono state affidate e che sono, di volta in volta, con importanza diversa: le persone, il materiale, i macchinari e il denaro.

Il suo primo obiettivo è quello di raggiungere i risultati economici di budget (che talvolta gli vengono assegnati senza sentire il suo parere) integrando fra di loro le risorse disomogenee a sua disposizione. Per quanto riguarda le persone talvolta deve prescindere dall’uniformare e omogeneizzare le differenze interculturali esistenti.

Egli è rispettato perché ha autorità formale e istituzionale. Egli comanda e ottiene (se è un buon capo) ubbidienza anche se le persone che dipendono da lui (e che quasi sempre non ha scelto) non sono convinte e motivate per quello che devono fare.

Il manager non può vivere costantemente a fianco dei suoi collaboratori perché frequentemente è impegnato in riunioni e in incontri con la direzione. Per questa ragione viene a conoscere poco dei problemi personali e famigliari dei suoi collaboratori.

Egli conosce invece bene le problematiche professionali poiché egli stesso ha contribuito a definire le caratteristiche di ruolo di ogni posizione organizzativa a lui afferente. Non rispetta talvolta tali caratteristiche modificando occasionalmente in base alle urgenze le mansioni dei collaboratori sostituendosi nei momenti più critici a essi.

Egli è cosciente che l’ottimizzazione economica del sistema a lui afferente non deriva dalla ottimizzazione dei singoli contributi ma da una costante mediazione fra esigenze disparate, danneggiando talvolta il contributo dei suoi specialisti e dei suoi professionisti e vantaggio dell’obiettivo da raggiungere.

Dovendo garantire il rispetto delle urgenze del lavoro quotidiano in chiave economica egli si sostituisce ai suoi dipendenti in maniera non sempre esauriente ed efficace. Per questa ragione il “manager” diventa un impiegato in più (e non sempre il migliore).
Se il “coach” dedica almeno l’80% del suo tempo alla cura dei suoi uomini (e delle sue donne), il “manager” non ne dedica normalmente più del 20%.

Chiedere a un “manager” di diventare “coach” è pertanto impensabile; come è impensabile chiedere ad un “coach” di gestire le persone a lui assegnate con finalità prettamente economiche.

Ma è possibile chiedere al “manager” che dedica un quinto del suo tempo alla gestione della sua risorsa umana, di passare dal 20% al 30%. Quel 10% di maggiore impegno gli verrà ripagato ampiamente in termini economici e temporali da una maggiore resa nell’uso del materiale, dei macchinari e del denaro da parte dei suoi collaboratori.
Essere un po’ meno “manager” e un po’ più “coach” è possibile (ed è anche conveniente).

Sorridi, sei su Google Plus

GoogleIn Italia è un’estate calda per Google. Il Garante della Privacy ha dato 18 mesi di tempo al gigante di Mountain View per rendere chiare e inequivocabili tutte le informative agli utenti. Chi accede ai vari servizi di Google deve sapere se il proprio profilo viene sfruttato a fini commerciali. In questo caso, l’utente deve dare un esplicito consenso e non finire a sua insaputa nella grande marmellata virtuale, in quel miscuglio in cui con un clic si diventa un “dato” buono per una molteplicità di piattaforme e per gli usi più disparati. Diventano più stringenti anche gli obblighi per la cancellazione degli account o dei dati personali, se un utente vuole recedere. Google si è detta pronta a collaborare e, in genere, una compagnia di quelle dimensioni mantiene la parola.
Perché la notizia dell’intervento del Garante italiano è una buona notizia? Google non è soltanto il più cliccato e “amichevole” motore di ricerca al mondo. Non ci offre, soltanto, traduzioni in tempo reale. E’ un colossale sistema informatico, fondato nel 1998 da Larry Page e Sergey Brin in California, che incamera e genera dati e servizi di ogni tipo, un colosso tanto affidabile quanto, in più occasioni, discusso, soprattutto quando lo si è accusato di essere troppo tenero con i servizi segreti e con i governi che praticano la censura. Dentro Google ci sono news, blog, mappe, posta elettronica, analisi statistiche, pagamenti online, video, foto, libri, shopping e backup di archiviazione. Dal 2011 Google è anche, con Google Plus, uno dei social più innovativi e diffusi (per ora, è secondo solo a Facebook), impegnato peraltro in una continua espansione e, come ogni piattaforma, oggetto di amore e di odio in quella sorta di continua disfida tra “guelfi e ghibellini” tipica dei frequentatori della rete (che hanno le loro passioni, i loro tic, le loro diffidenze).

Da quando Google Plus è nato, oltre alla manualistica ufficiale prodotta dalla casa madre californiana, si scrivono e stampano manuali e si offrono veri e propri corsi di formazione, rivolti non solo a chi voglia scoprire le potenzialità di un social diverso da quelli tradizionali, come Facebook, ma anche a chi intenda usare la piattaforma per creare business aziendale: le “cerchie”, infatti, possono diventare appetibili target commerciali. Google Plus è quindi anche un formidabile strumento per chi opera nel web marketing. I suoi algoritmi sono infatti in grado di associare dati personali e di creare relazioni più che virtuali, istillando affinità e preferenze o suggerendo scelte di consumo. E il rischio che un malcapitato utente finisca stritolato è alto. Da qui l’intervento del Garante. Ma la tutela dell’utente passa anche dai buoni manuali e dai buoni formatori. Un buon manuale indipendente o un buon formatore indipendente deve saper mettere in luce le differenze e fornire strumenti critici agli utenti per distinguere. Deve, cioè, far capire che la rete, nonostante gli strumenti democratici di cui dispone (la vigilanza “dal basso” e “dall’alto”), è un perpetuo luogo a rischio di ambiguità, poiché la comunicazione e la socializzazione sono o possono essere contaminati da manipolazioni e da interessi (e non parliamo di quelli legittimi, se trasparenti, degli inserzionisti pubblicitari).

Scopri Google PlusIl libro che presentiamo, “Scopri Google Plus e conquista il Web” di Salvatore Russo (collana WebBook di Dario Flaccovio Editore, www.darioflaccovio.it), è una dichiarazione d’amore verso le potenzialità di Google Plus, insegna tutto quel che c’è da sapere per destreggiarsi nella piattaforma, ma è pure intelligentemente attraversato da opinioni e contributi che mettono i giusti accenti critici là dove vanno messi. Ma che cos’è in due parole Google Plus? Non è un social network, dicono gli appassionati. Sarebbe come dire che è un altro Facebook. E’ piuttosto un Social Layer, come la stessa public company californiana ama definirlo: cioè uno “strato” di servizi “popolari”, una sorta di gigantesco emporio di servizi e contenuti dentro il quale si incentiva la socializzazione. E’, insomma, una Social Spine, come dice Salvatore Russo, qualcosa di più di un “plug”, una “spina” che attiva l’intero sistema Google; o meglio, una sorta di “spina dorsale” di quel sistema. “Google Plus – scrive Russo – permette di eseguire tutte le attività classiche di un social network (condivisione post, foto, video, link e interazioni con gli utenti) con il valore aggiunto di una sempre più forte integrazione con tutti i servizi Google. E’ la Social Spine che attiva e rafforza l’intero sistema Google, in quanto fortemente connesso con tutti gli altri prodotti della società di Mountain View: motore di ricerca, Maps, Drive, YouTube, Gmail, Chrome, Android, eccetera”.

Salvatore RussoDal manuale di Russo, che è un giovane esperto di web marketing e un consulente aziendale, pubblichiamo il “glossario” di base, utile per chiunque decida di entrare nel mondo di Google+.

di Salvatore Russo

+ 1

E’ il modo più immediato per far sapere che hai apprezzato un contenuto. I tuoi +1 e quelli che riceverai sono importantissimi, perché influenzano i risultati delle ricerche Google. Non devi però esserne ossessionato, altrimenti diventi cieco. Decidi tu in che modo pronunciarlo:

  • Più Uno (classico intramontabile)
  • Plas Uan (american style)
  • Plas Uno (esterofilo pentito)
  • Più One (Bim Bum Bam)

Authorship

Google Authorship consente di collegare i tuoi post al tuo profilo Google+, in modo tale da far identificare a Google che tu sei il reale autore di quel contenuto. Perché dovresti farlo? Quando in una ricerca viene visualizzata una pagina contrassegnata tramite l’Authorship, Google potrebbe assegnare ad essa il nome e la fotografia dell’autore (la stessa caricata su Google+).

Author Rank

E’ un indice come il Page Rank, ma invece di assegnare un valore alla pagina web lo assegna al suo autore. Quindi la credibilità e la reputazione dell’autore diventano decisivi ed assume un valore fondamentale l’utilizzo dell’Authorship, che serve appunto per far capire a Google chi è l’autore di un determinato contenuto.

Bounce Rate (tasso di rimbalzo)

Bounce Rate è un termine utilizzato nell’analisi del traffico di un sito web. Un bounce (in inglese rimbalzo) avviene quando l’utente abbandona il sito dopo aver preso visione di una sola pagina web entro pochi secondi. Come cambiano i tempi! Quando ero ragazzo il “Bounce Rate” rappresentava il tasso di rimbalzo del buttafuori all’ingresso della discoteca…

Cerchie

Pensa alle cerchie di Google+ come a delle categorie. Sostanzialmente con le cerchie è possibile classificare i tuoi contatti in base ai tuoi interessi.

Citroll

Assonanza con Citrullo (variante, di origine napoletana, di cetriolo). Persona sciocca, che agisce con poco cervello. A differenza del Troll non compie le sue gesta seguendo maliziosamente un piano premeditato, ma semplicemente usa i social network senza averne capito lo spirito e sputa odio come una lama digitale verso chiunque orbiti nelle sue vicinanze!

CPL (Cost Per Lead)

“Costo per contatto” viene utilizzato per riferirsi alla spesa che fa un inserzionista per ogni contatto generato dalla pubblicità che ha messo online. Praticamente ad ogni utente che si registra su un form specifico, e che quindi lascia informazioni personali rilevanti per l’inserzionista, corrisponde una data somma di denaro.

CPM (Cost Per Mille)

E’ un indicatore comunemente usato nel settore pubblicitario al fine di calcolare il costo di una campagna pubblicitaria in base al numero di visualizzazioni. Ad esempio: ho acquistato banner pubblicitari sul sito X a 5 euro a CPM (5 euro per ogni 1000 visualizzazioni del banner). Alla fine della campagna il banner ha totalizzato 2 milioni di impression, quindi dovrò pagare diecimila euro (2.000.000:1000 = 2000; 2000 x 5 euro = 10.000 euro).

CTR (Click-Through Rate)

In italiano “Percentuale di clic”, è un tasso che misura l’efficacia di una campagna pubblicitaria online o in generale di qualsiasi tua attività online che richiede l’interazione tramite un clic, appunto, da parte dell’utente. Se ad esempio un tuo annuncio Adwords viene visualizzato nella ricerca di Google cento volte (impression) e cliccato 10 volte, il CTR risulterà del 10%. Il CTR misura sostanzialmente l’interesse che riesce a suscitare il tuo contenuto.

Embed

To embed significa incorporare, fare mio. Per ciò che riguarda Internet significa sostanzialmente inserire in un sito un contenuto proveniente da un altro sito, social network, piattaforma, etc.

Engagement

Il coinvolgimento degli utenti è uno degli obiettivi primari dei professionisti del marketing: attirare l’attenzione e coinvolgere la propria community in una sana e proficua conversazione.

#EpicFail

Ogni mattina un responsabile marketing si sveglia e sa che potrebbe essere un giorno buono per un #EpicFail. E’ l’hashtag utilizzato dagli utenti per manifestare il loro disappunto per un determinato post, spot pubblicitario, concorso, etc. In merito ci sono dei casi epici! Se decidi di iniziare a conversare, devi avere un piano strutturato per la gestione delle crisi da #EpicFail.

Fake

Un fake è una performance di un appartenente a una comunità online (social network, chat, form, etc.), che pratica una sorta di “gioco di ruolo” interpretando una personalità che non gli è propria (es. una top model ammiratissima, che nel tempo libero si finge un nerd obeso e psicopatico su Google+).

Fake Inconscio

E’ colui che interpreta se stesso, ma a capocchia! E’ la vera realtà aumentata! Una sovrapposizione di livelli informativi fake della propria vita.

Flame/Flamer

Fiamma in inglese, è un termine utilizzato nel gergo delle comunità virtuali di Internet per identificare un messaggio deliberatamente ostile e provocatorio inviato da un utente alla comunità o a un altro individuo. Il flamer è colui che appicca questi incendi virtuali; nella vita reale lo puoi riconoscere nelle riunioni condominiali: solitamente sbraita per i millesimali.

Follower

Tutte le persone che ti hanno aggiunto alle loro cerchie.

Google Poseur

Sono tutti coloro che hanno un account su Google+, ma che non hanno ancora capito la differenza tra Google+ e tutti gli altri social network, replicando ciò che facevano già male su Twitter e Facebook. Come riconoscere un Google Poseur:

  • I suoi post di solito contengono poche parole, una secchiata di hashtag e un link, ovviamente verso un suo contenuto.
  • Pur avendo un botto di follower i suoi post sono privi di commenti e ricondivisioni.
  • Non commenta e ricondivide post altrui. Nemmeno un coccoloso +1, niente.
  • L’unica forma, malsana, di ricondivisione che apprezza sono le cerchie condivise, con il preciso scopo di aumentare il numero di follower, come se fosse un videogame degli anni Novanta. Le cerchie condivise sono per lui come i #FF (followefriday) il venerdì su Twitter, un modo banale e artificioso di creare movimento intorno a un account di plastica.

GPlussers

Sono gli utenti di Google+, quelli che hanno capito lo spirito di questa piattaforma, in cui lo scambio di informazioni, la collaborazione e la condivisione di idee può trovare la sua massima espressione. Questo è possibile sia per come è stato concepito Google+ che per l’atteggiamento assolutamente positivo di molti professionisti che da subito hanno portato in questo nuovo mondo comunicativo caravelle ricolme di idee, contenuti e soprattutto voglia di condividerle. La community GPlussers ne è per me la massima espressione. Ovviamente dico questo perché la gestisco io!

Hangouts

Strumento di chat e videochiamata di Google+.

Hashtag

Gli hashtag sono oramai presenti in tutti i social network. Cosa sono? L’hashtag è una parola o una frase (senza spazi) preceduta dal simbolo #, ad esempio #GooglePlus, che aiuta le persone a trovare e partecipare a conversazioni riguardanti un determinato argomento. Su Google+ facendo clic sull’hashtag vengono visualizzati i contenuti ad esso correlati. Rappresenta un sistema per aggregare facilmente tutti i contenuti con lo stesso argomento, una sorta di cartelletta digitale.

KPI (Key Performance Indicators)

Rappresenta un obbiettivo aziendale determinato da un valore ben preciso, la vicinanza o meno a tale valore ci dà una chiara valutazione delle nostre performance.

Menzione

Per citare qualcuno nei propri commenti o post basta utilizzare il simbolo + oppure @ seguito dal nome (ad esempio +salvatore russo). La persona menzionata riceverà in automatico una notifica che lo inviterà a partecipare alla discussione.

PageRank

Il PageRank è un valore numerico da 0 a 10 attribuito ad ogni pagina web che è indicizzata sul motore di ricerca Google e che stabilisce il grado di importanza di quella pagina rispetto a tutto lo spettro di documenti indicizzati sul web.

Pagina Google+

Sono gli account Google+ per le aziende. Le pagine Google+ interagiscono nell’ambiente Google+ in modo del tutto simile ai proprietari dei normali profili e consentono quindi di aggiungere persone alle cerchie, modificare il proprio profilo, condividere contenuti, fare +1 su commenti, foto, creare e partecipare agli Hangout.

Plusuanna

Colui che pigia il bottone +1.

PPC (Pay Per Click)

E’ una modalità di acquisto e pagamento della pubblicità online; l’inserzionista paga una tariffa unitaria solo quando un utente clicca effettivamente sull’annuncio pubblicitario. Un esempio di pubblicità Pay Per Click è Google Adwords, cioè annunci sponsorizzati che compaiono nei risultati del motore di ricerca Google.

ROI (Return On Investments)

Tradotto come indice di redditività del capitale investito o ritorno sugli investimenti, indica quanto rende il capitale investito nell’azienda. Indice ovviamente fondamentale nel marketing.

SEM (Search Engine Marketing)

Tutte le attività (comprese quelle SEO) utili a generare traffico qualificato verso un determinato sito web. Lo scopo è portare al sito, tramite i motori di ricerca, il maggior numero di visitatori realmente interessati.

SEO (Search Engine Optimization)

L’insieme di attività finalizzate a migliorare rilevazione, analisi e lettura del sito web da parte dei motori di ricerca, in modo tale da migliorarne potenzialmente il posizionamento nella SERP.

SERP (Search Engine Report Page)

Pagina dei risultati del motore di ricerca. Banalmente, per fare un esempio, se va sui Google o su un altro motore di ricerca e digiti “orecchiette con le cime di rapa” i risultati che riceverai (generalmente elencati a pagine di 10) rappresentano la SERP.

Short Link

Una delle pratiche più comuni e utilizzate quando si condividono i propri post è quella di accorciare gli URL. Per farlo è possibile utilizzare uno dei tanti servizi gratuiti (io ne consiglio due su tutti: bit.ly e goo.gl).

Smarmellare

Il lato buono dello Spam. E’ la condivisione di buoni contenuti, con l’intento di raggiungere l’intera popolazione di Internet. Per farlo è necessario tutto l’amore dei propri follower. E per farsi amare dai propri follower è necessaria la nostra più totale dedizione a un unico obbiettivo: la buona conversazione.

Social Cosi

Tutti coloro che a vario titolo lavorano su social media, comunità virtuale e accrocchi 2.0 allo scopo di generare visibilità verso un determinato brand. Questo “soprannome” quindi racchiude una moltitudine di professioni anche molto differenti tra loro, ma accomunate dal media utilizzato per veicolare la propria comunicazione. Essendoci in Italia ancora una forte digital divide, il termine “coso” prende il posto di Social Media Strategist, Social Media Management, Social… Coso.

Social Eroi

Possiamo trovare nel nostro vivere quotidiano degli esempi di uomini dotati di poteri fuori dal comune? Non lo so, ma l’idea mi è sempre piaciuta. Ed è proprio grazie a quest’idea, al mio lavoro e alle mie passioni che ho potuto conoscere alcune persone con un peculiare e marcato talento, capaci di utilizzare i network sociali per “fare del bene” e farlo in svariati modi, due su tutti: mettono a disposizione le loro abilità professionali condividendo pensieri, idee, contenuti qualitativamente alti che incoraggiano discussioni costruttive; producono sorrisi grazie alla loro naturale simpatia e ironica. Questi sono i #SocialEroi.

Spam

Il Male. Il termine ha origine da una scena della serie tv inglese “Monty Python Flying Circus” (roba di 43 anni fa) in cui si prendeva in giro la carne in scatola “Spam” presente ovunque in Gran Bretagna negli anni del dopoguerra, sia sulle tavole che in pubblicità. Ora viene utilizzato per definire i messaggi e-mail non richiesti, di solito utilizzati a scopo commerciale o pubblicitario. Io estendo il concetto a tutte le attività pubblicitarie poco trasparenti, non richieste, massive, cheap, aggressive, tipo “scade domenica”.

Stream

Sostanzialmente il flusso delle informazioni visualizzate in una determinata piattaforma. Ad esempio il giovane che esclama “ho visto il tuo post nello stream home di G+”, ti sta semplicemente dicendo che ha visualizzato il tuo post nella schermata principale del suo account Google+, tranquillo.

Temi Caldi

Argomenti di maggior successo in Google+, è possibile trovarli sparsi nel tuo stream oppure raccolti ordinati e pettinati all’interno dell’apposita sezione, appunto Temi Caldi raggiungibile tramite il menu di sinistra nel tuo account Google+.

Troll

Colui il quale dedica la propria attività online a distruggere una determinata comunità virtuale, attraverso un sistematico uso di messaggi provocatori e violazioni della “netiquette”.

Oltre la grata: la clausura ai tempi di internet

Oltre la grata: così abbiamo incontrato la clausura, ai tempi di internet

bacci_borella_sito Cecilia Andrea Bacci e Alessandra Borella

“Servizio ben realizzato, interessante e per certi versi sorprendente. Costruito su un’idea, con un taglio particolare e una cura insolita, ci offre le immagini inedite di donne che hanno fatto una scelta di vita diversa”.

E’ la motivazione della giuria della Settima Edizione del Premio dedicato alla memoria e all’impegno giornalistico di Gaspare Barbiellini Amidei vinto (nella sezione tv e radio) da Cecilia Andrea Bacci e Alessandra Borella, per il servizio video “Oltre la grata, la clausura al mondo d’oggi”, trasmesso il 21 marzo 2014 su Quattro Colonne SGRT News – testata della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.

Il Premio, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, è rivolto ai giovani impegnati nella professione (sotto i 35 anni) per incoraggiare un giornalismo libero, innovativo e di qualità. 

Il tema della Settima Edizione era: “Verde, Bianco e ROSA? L’Italia delle donne”. Dacia Maraini è stato Giurato speciale per l’Edizione 2014. 

di Alessandra Borella e Cecilia Andrea Bacci

È dicembre. Seduta dietro la grata, il velo le nasconde la testa, i capelli, le orecchie. Quello che colpisce all’istante osservando il suo volto incorniciato, è la pelle rosea e luminosa che non ne tradisce l’età. Sembra una ragazza di vent’anni. Slanciata, bella. È una donna che ne ha compiuti quaranta pochi giorni fa. Si chiama Sara. Non un filo di trucco, i suoi occhi sono dolcissimi. È la Madre Abbadessa del convento.

Madre Sara, la badessa del monastero di Sant'Agnese Madre Sara, la badessa del monastero di Sant’Agnese

È lei che deciderà se farci entrare. Io e Cecilia abbiamo deciso di raccontare la clausura. Sarà il tema del nostro reportage. Questa curiosità, così lontana dalla nostra vita personale e professionale, ci trova in sintonia. Molte telefonate, un solo “sì” ad accordarci un appuntamento di persona. Quello del monastero delle clarisse di Sant’Agnese, nel centro storico di Perugia. Si trova in corso Garibaldi, dove ci sono tre conventi in 200 metri: clarisse, benedettine e domenicane.

Quello delle clarisse è noto alla comunità anche perché custodisce un prezioso dipinto del Perugino, la “Madonna delle Grazie con santi”, conosciuto come “Madonna Immacolata” negli archivi del monastero.

Papa Leone XIII concesse una dispensa dalla clausura, nella zona che va dall’esterno al corridoio che porta dentro la cappella di sant’Agnese, dov’è custodito il Perugino. Le monache riebbero il monastero dal demanio in cambio dell’impegno a fare da guide a chi volesse visitare il quadro. Ed è tuttora così, dal primo decennio del Novecento.

ingresso_monastero L’ingresso del monastero

Salendo la stradina che porta alla piazzetta dove sorge il palazzo, si respira un’atmosfera mistica. Sarà per il silenzio straniante, cui non siamo abituate. Un’oasi di pace, nel cuore della città.

La prima volta che entriamo nel refettorio, non è Sara ad accoglierci. La luce filtra fioca da una sola finestra. Si gela. I minuti di attesa sono interminabili. Una luce si accende, un rumore sottile di passi si avvicina. Entra Mariachiara. È minuta, eppure sprigiona una forza che invade la stanza. Incute timore. È la prima suora di clausura che vediamo. Finora, ne avevamo solo sentito parlare. Ci stringe le mani, gesto che faranno tutte, sempre. Ci invita ad accomodarci, siamo tese. Due ore di colloquio. Ci scruta, dietro le lenti spesse degli occhiali. Ci interroga sul progetto, con una placida ma autorevole solennità.

In quei momenti non ci saremmo mai immaginate che proprio Mariachiara ci avrebbe guidato all’interno, con i suoi passetti rapidi e scattanti, costringendoci ad un inseguimento serrato con le telecamere e i fili del microfono, che dalla sua veste alle nostre mani si incastrano ovunque. Reggerà il cavalletto, raccontando senza sosta la storia di quei luoghi, come una vera “producer”, così come l’abbiamo ribattezzata scherzosamente in seguito. È stata lei la nostra prima sostenitrice. Ci ha dato fiducia ed è bastato un suo sguardo primaverile e materno, dietro la grata, con il montaggio finale mostrato loro in anteprima sul nostro computer, per capire che non avevamo fallito nel desiderio di raccontarle fedelmente, senza tradirne lo spirito, senza violarne l’intimità.

In un mese di post-produzione, decine di ore di girato erano lì, davanti ai loro occhi, racchiuse in otto minuti. Mariachiara, Sara e poi Speranza e Agnese. Sono quattro delle quindici sorelle clarisse che ci hanno aperto le porte del monastero in cui vivono. Speranza è perugina, ha una laurea in scienze politiche. Ironizza sulla sua vocazione e il suo viso esplode in risate spontanee e contagiose. Agnese è calabrese, ha studiato legge. Quando risuona una voce squillante al di là delle pareti, è lei che ne sta combinando una delle sue. Si occupano dei ritiri spirituali nei quali ospitano i giovani (io e Cecilia comprese), curano il sito internet e rispondono assiduamente alle email.

grata_clausura_santagnese

Sono seguiti numerosi colloqui dopo il primo con suor Mariachiara. Qualche messa e gli inviti ad assistere ai vespri (la preghiera della sera) e alle adorazioni eucaristiche. Alcuni accettati: né io, né Cecilia, abbiamo avuto timore di rimettere piede in una chiesa. Non avremmo potuto capire appieno la clausura senza partecipare, almeno in parte, al tempo delle preghiere, che scandisce la loro giornata. Non conta condividerle o recitarle.

Dentro la chiesetta adiacente al monastero, potevamo scorgere le nostre “ragazze”, dalla finestrella con la grata che si trova dietro l’altare: erano sedute sulle panche in legno del coro, dall’altra parte del muro. Avrei giurato di scorgere, più di qualche volta, malcelati sorrisi rivolti a me e Cecilia, sedute sui banchi con espressione seriosa (o, piuttosto, malcelata rassegnazione). Passano l’avvento e il Natale.

Solo a metà gennaio riceviamo la telefonata tanto attesa. “Vi faremo raccontare le nostre storie. Potrete entrare con la telecamera”. Il nostro progetto prende forma. Tutto ciò che è accaduto poi, lo raccontano le nostre immagini. Quasi tutto. Non raccontano l’abbraccio che ci ha unito, la prima volta che si è aperto il portone e ci siamo viste tutte quante, una di fronte all’altra, senza grata. O lo stupore quando ci siamo accorte dei loro piedi nudi dentro i sandali, in pieno inverno. O le risate fragorose, l’ironia, le prese in giro, quando io e Cecilia, incaponite su questioni tecniche, costringevamo le ignare e docili sorelle, di volta in volta soggetti dell’inquadratura, a estenuanti prove e rifacimenti.

Le immagini non raccontano le ore trascorse in loro compagnia, che non si contano. Il profumo delle pietanze in cucina, la polvere sulle pagine dei libri antichi, in biblioteca. Otto minuti sono giorni e giorni, sono ritagli di tempo, tra un vespro e l’altro, per loro, tra una lezione e l’altra, per noi. Sono le domeniche di febbraio. Sono ogni momento utile. Sono pranzi, sorrisi, racconti, confidenze. Sono ore di interviste a tu per tu.

Non ci siamo risparmiate domande scomode: volevamo raccontare la vita claustrale senza pregiudizi e senza indulgenze, dal loro rapporto con il corpo, alla maternità, all’amore. Da donne a donne.

clausura_borella

Non sapremo mai come vivono le altre settemila suore di clausura in Italia, ognuna con il suo ordine monastico, con le sue regole e la sua più o meno stretta osservanza. Abbiamo raccontato le storie di quattro monache, stralci della loro esistenza quotidiana, discreta e custodita con grazia. Non leggono i giornali, ma si concedono qualche film, proiettato su un lenzuolo bianco, nel salone sotterraneo che somiglia ad una grande taverna.

Quello che fanno per la comunità va oltre la preghiera; vivono di carità, ma non lesinano aiuto concreto, materiale e spirituale, ai bisognosi, che sia un piatto di pasta, o una parola di conforto. La loro scelta di fede resta incomprensibile alla ragione. Ma non si può restare insensibili dinanzi alla profondità di un incontro umano.

Oltre il mestiere, che ci ha portato a documentarlo, e oltre la grata, che le separa da noi, ma solo fisicamente. Dietro quella grata ci siamo io e Cecilia, inquadrate dall’interno della clausura all’inizio del nostro reportage. Siamo noi, nel mondo che spesso diventa una prigione a cielo aperto, ad essere indagate e interrogate da loro, rinchiuse e libere al tempo stesso. Credenti o no, la serenità che abita quel luogo, quei corpi e quelle menti, entra sotto la pelle. La si vive mettendo piede nella casa di Sara, Mariachiara, Speranza e Agnese. E’ calore. Il calore dell’accoglienza e dell’amicizia. Questo, no, le immagini non possono proprio raccontarlo.

Piacere, Cloud

Cover Web 3.0Cloud, la Nuvola. Ma anche la robotica e le nanotecnologie, il Big Data e la vociante “piazza” dei social network, il Mobile Internet e quella sorta di nuovo mondo impressionante chiamato Internet delle Cose, la futura colossale interconnessione in cui tutti gli oggetti, e le stesse città, le Smart City, potrebbero riuscire a dialogare tra di loro e con i nostri dispositivi mobili, non solo servendoci ma anche pianificando le nostre vite.
Tutto questo si trova in “Rischi e opportunità del Web 3.0” di Rudy Bandiera (Dario Flaccovio Editore, www.darioflaccovio.it), un libro sul futuro del web (un futuro stupefacente e che, a tratti, inquieta), ma un libro anche sul passato e sul presente della rete (e in questo libro si spiega anche la differenza che passa tra Internet, web e rete).
Non ci sono solo le tecnologie, ci sono anche le aziende e gli uomini, come i giganti dell’informatica, dalla Apple di Steve Jobs (che soffre della scomparsa del genio) alla Microsoft di Bill Gates (non molto amata dagli “smanettatori”), passando per il signor Tim Berners-Lee, l’uomo che – in Europa, non nella Silicon Valley – coniò l’espressione “www”: World Wide Web.
L’autore, Rudy Bandiera, ferrarese, è un professionista dell’era digitale, e si guadagna da vivere come esperto e docente di “online marketing” (ha fondato la società NetPropaganda). E’ un libro, il suo, che consigliamo. E’ una miniera di nozioni, informazioni e scenari, che permette di capire (con un linguaggio diretto e chiaro) in quale “mare magnum” comunicativo ci troviamo immersi e verso quali sponde stiamo navigando. All’autore diamo solo un modesto suggerimento: non è vero che “una intelligenza collettiva e ben calibrata” sia meglio di “un collegio di menti che vanno tutte in direzioni opposte”. Questo precetto può valere per un team o per una mission aziendale, non è certo auspicabile per l’umanità, tantomeno per le società democratiche “interconnesse”, le quali mai potrebbero rinunciare a coloro che, quando serve, prendono “direzioni opposte” (e siamo sicuri che Rudy Bandiera è d’accordo con noi).
Da “Rischi e opportunità del Web 3.0” pubblichiamo il brano dedicato al Cloud.

di Rudy Bandiera

Rudy BandieraCredo e temo che Cloud sia la parola più utilizzata e in qualche maniera inflazionata in ambito informatico, e temo sia una questione di moda: è una bella parola, con un cadenza semplice, è breve, non difficile da pronunciare, ha una rappresentazione grafica spesso ariosa e pulita, ci ricorda il cielo, rappresenta e significa “nuvola”. Come non usarla sempre?
In realtà purtroppo, come spesso accade, il Cloud o più precisamente Cloud Computing non indica esattamente qualcosa di arioso, spaziale e poetico, ma un insieme di tecnologie, fredde, freddissime tecnologie che hanno come propellente la Banda (non quella di Belushi ma quella larga di Internet), i server e il software, che in un modo o nell’altro dobbiamo etichettare con un nome.

Che cos’è il Cloud?

La Nuvola, per dirla all’italiana, è l’insieme di tecnologie che permettono di elaborare dati, oppure archiviarli su computer remoti che possono essere dall’altra parte del pianeta: si tratta in pratica di prendere i tuoi dati e salvarli su un computer che non è il tuo.
Ovviamente le caratteristiche del servizio o dei servizi garantiscono una sicurezza straordinaria ai tuoi dati, nel senso che se andasse a fuoco il tuo ufficio avresti perso tutto quello che hai sugli hard disk, mentre è difficile che vada a fuoco l’intera California con tutti i tuoi dati.

Quali sono gli usi del Cloud?

Gli aspetti più interessanti per quello che riguarda il Cloud Computing sono certamente due: l’archiviazione di file e il loro trattamento. Sono due cose molto differenti tecnicamente e un file, un dato, deve avere anche una predisposizione verso una soluzione piuttosto che l’altra, ovvero se io apro un file di testo in Cloud su un computer e lo stesso file di testo viene aperto da un’altra persona dall’altra parte del mondo, il suddetto file di testo non può essere editato e salvato da entrambe le persone, perché quel file non è appunto predisposto per essere trattato da più fonti.
Quindi andiamo per ordine.

Archiviazione

I software di archiviazione in Cloud sono generalmente i più noti e anche quelli che sono nati prima, perché rispondono ad una necessità vecchia quanto l’uomo, la necessità di mettere al sicuro le proprie cose senza paura di perderle.
Se usiamo un computer e questo computer si rompe, tutto quello che abbiamo nell’hard disk potrebbe essere irrimediabilmente perso, con ingenti danni sia in termini economici, sia di lavoro, sia di tempo, sia di cuore e valvole mitraliche, ed è per questo che il Cloud ci offre un approdo sicuro, una spiaggia sulla quale sentirci protetti mentre lavoriamo.
Software come Dropbox (che sta eseguendo il backup in automatico mentre scrivo questo pezzo su dei server non so ben posizionati dove) ci danno la possibilità di lavorare su uno o più file che sappiamo, con certezza, che vengono costantemente aggiornati e salvati su più server remoti.
Non posso perdere nulla. Nemmeno se voglio.
Inutile dire quanto sia comodo, oltre che sicuro, un servizio del genere: da qualsiasi macchina io acceda, da qualunque device, come telefono, PC, o tablet, il mio file sarà sempre disponibile, editabile e di nuovo salvabile, esattamente come se avessi un hard disk in tasca e usassi sempre quello.

Elaborazione

L’altra possibilità che il Cloud ci offre, nella sua immensa grandezza, è quella che diverse persone possono editare o elaborare un file (se correttamente predisposto), un numero di utenti virtualmente infinito. Se la comodità dell’archiviazione nella Nuvola è certamente magnifica, così come la sicurezza intrinseca che implica, l’editing di un file, oltre al suo salvataggio, è certamente un valore aggiunto: se oltre a salvare un file lo posso anche modificare e se oltre a me lo può fare anche il mio collega dall’altra parte del mondo, il quid diventa smisurato.
Evitiamo invii di mail, messaggi, telefonate: lavoriamo tutti, in due o in team, sullo stesso file scrivendo a 2 o a 4 o a 20 mani.
Esistono strumenti come Google Drive, gratuiti e “leganti”, che forniscono la possibilità di aprire documenti condivisi simili in tutto e per tutto ai formati esistenti in Office di Microsoft, ad esempio, e di salvarli nei formati più consoni ai reader che si trovano in commercio, così da poter creare dei file di testo come se li avessimo editati in Word, oppure in Excel o via dicendo.

Elaborazione remota

Oltre a queste due funzionalità stupefacenti, abbiamo anche la possibilità di utilizzare i calcolatori remoti per elaborare quello che altrimenti dovrebbe elaborare il nostro computer.
Se per esempio vogliamo giocare a Quake 3 Arena abbiamo due possibilità che sono o comprarlo, installarlo, configuralo e infine giocarci utilizzando le risorse del nostro hardware, oppure andare online e giocare con quello disponibile in Rete, semplicemente accedendo a un portale che si occupa di fare muovere il nostro giocatore al posto del nostro computer.
Per noi ovviamente l’effetto è lo stesso, ma il nostro computer sarà sollevato dal dover far girare un programma e sarà “libero” di fare altro oppure, addirittura, sarà inutile, rendendo la gara alle performance di velocità delle CPU oltre modo superata.
Ma adesso viene una domanda spontanea: se i calcoli non li fa il mio PC, a cosa mi serve un PC potente?

Nella quantità di banda sta l’unico limite

La risposta alla domanda, guardando a domani, potrebbe essere: a nulla. Non voglio parlare di Second Life adesso, ma è ovvio che se sono macchine remote a farmi muovere in un mondo virtuale, a salvare i miei file o farmeli editare, è anche chiaro che la qualità e le possibilità del servizio stanno nella quantità e velocità della banda a disposizione. Ovvio che per accedere ai servizi il mio device debba essere abbastanza potente e parlare la stessa lingua dei servizi stessi, ma la chiave delle performance non è nell’individualità del nostro smartphone o PC.
Se da un lato la gara alla banda larga così come alla fibra ottica potrebbe sembrarti stupida come la corsa al 4G, basti pensare all’incredibile uso del Cloud che facciamo per capire che non vi è nulla di più sensato. Pensa ad esempio ad ogni volta che scatti una foto con il tuo telefono, la quale viene uploadata in modo automatico su servizi di backup come Google Backup Automatico o SkyDrive di Microsoft o iCloud di Apple e pensa a quante persone, contemporaneamente, stanno uploadando i loro gattini in remoto.

La morte del concetto di possesso

Grazie all’utilizzo del Cloud e allo sfruttamento di reti remote sempre più veloci e potenti, sarà davvero possibile avere tutto sempre con noi, così come sarà possibile non “possedere” di fatto più nulla. La nostra musica, le nostre foto, la nostra vita intera saranno nella Nuvola, rendendo obsoleto il concetto stesso di possesso, visto che non si tratterà più di avere qualcosa per poterla usare, ma si tratterà di usarla senza necessariamente doverla avere.

Una scritta: Press. E una lunga scia di sangue

andy_rocchelliOgni volta che si spara a un giornalista il racconto di un pezzo di mondo scompare. Andy Rocchelli, il fotoreporter piacentino di 30 anni ucciso la notte del 24 maggio in Ucraina, stava lavorando a una storia: le cantine usate come bunker dalla popolazione civile. Se non ci fosse stato lui nessuno di noi avrebbe visto quelle immagini di bambini raccolti in silenzio nel buio di uno scantinato. Nessuno conoscerebbe quella storia. Ma il suo racconto è stato bruscamente interrotto.

Ora conosciamo quel piccolo frammento di mondo, ma chissà cosa non conosceremo mai a causa della sua morte e di quella di tanti altri giornalisti. Andy e il suo interprete, Andrey Mironov, sono stati uccisi da un colpo di mortaio alle porte di Sloviansk. Viaggiavano in macchina nel mezzo della lotta armata tra filorussi ed esercito ucraino a Donetsk, nella regione più calda del conflitto. Non si sa ancora chi abbia aperto il fuoco sul convoglio. Ne tantomeno perché. Rocchelli era un fotografo esperto e potrebbe essere rimasto vittima di un tiro incrociato. Oppure può esser stato colpito deliberatamente. Nell’est Ucraina ormai è caccia ai giornalisti.

Succede sempre così nelle zone in cui la lotta per il potere si fa violenta, spietata, siano esse zone di guerra o di spartizione tra gang criminali. Dove l’opacità degli affari non tollera la visione trasparente di uno sguardo esterno, di un giornalista, che cerca di dare voce alle parti in campo ma soprattutto alla popolazione. E in questa guerra alla stampa, che non conosce razza, religione o sesso, il dato più inquietante è quello relativo all’impunita dei delitti. Chi negli ultimi anni ha ucciso un giornalista o un operatore della comunicazione è stato punito solo in un caso su dieci, secondo i dati raccolti dall’UNESCO.

Una storia di impunità che purtroppo anche il nostro paese conosce bene. Basti pensare ai casi di Graziella De Palo o Ilaria Alpi. Nessun mandante è stato ancora trovato per la loro morte e spesso il colpevole designato dalla giustizia nasconde verità più complesse. Solo dopo 20 anni si è deciso finalmente di desecretare le carte dei servizi segreti relativi all’omicidio Di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, avvenuto nel 1994 in Somalia. La giornalista del Tg3 stava indagando su traffici illegali di armi e rifiuti tossici. Una pista totalmente confermata dai documenti recentemente rivelati, che a pochi mesi dal delitto già sembravano indicare i possibili responsabili. Una pista che però si è poi insabbiata per anni nei meandri di una fitta rete di collusione e silenzi, con una giustizia lontana e a volte beffarda.

Secondo il Commitee to protect journalist (CPJ), solo nel 2013 sono stati uccisi 71 giornalisti. In Siria 28, 10 in Iraq, 6 in Egitto. Il resto tra Afghanistan, Turchia, Pakistan, Somalia, India e Brasile. Nel complesso i due terzi dei giornalisti sono stati uccisi in Medio Oriente, la restante parte in America Latina. Il dato è in linea, anzi in leggero calo, rispetto a quelli degli anni precedenti, ma non può lasciare indifferente chi ancora crede nella libertà dell’informazione e nell’importanza di testimoniare le atrocità della guerra.

Dal 1992, sempre secondo il CPJ, sarebbero almeno 71, ricorre questo numero, le reporter donne uccise. Ma a morire sul campo per raccontare la libertà non sono solo giornalisti ma anche tanti cameraman, netizens e citizen journalists. La libertà ha un prezzo che alcuni regimi non vogliono permettersi di pagare.

Dietro i numeri ci sono i volti, la passione e un grande entusiasmo. A volte senza esperienza, a causa della giovane età. Ahmed Assem el-Senousy aveva 26 anni e lavorava per il quotidiano egiziano Al-Horia wa Al-Adala. L’8 luglio dello scorso anno era in piazza per raccontare gli scontri tra i manifestanti e i sostenitori del presidente Morsi. Quando ci si trova in mezzo a migliaia di persone il giornalista corre gli stessi rischi di chi è intorno a lui, non c’è niente a proteggerlo. Quel giorno Ahmed subì la stessa sorte di altre cinquanta persone, tutti uccisi dai colpi dei cecchini. La stessa età aveva Camille Lepage, una coraggiosa fotoreporter francese freelance.«Ci vorranno otto ore di moto perché qui non ci sono strade», scriveva su Twitter pochi giorni prima di essere uccisa, il 13 maggio, in Repubblica Centrafricana. Era andata a raccontare quei delitti di una guerra lontana che non fa più notizia.

Guerre dimenticate. Guerre che durano da troppo tempo. Anja Niedringhaus conosceva bene l’Afghanistan. Lo raccontava da anni e si apprestava a seguire le attese elezioni presidenziali del paese. «Quando vedevo il suo caschetto di capelli bianchi in mezzo alla folla, con in mano la sua macchina fotografica, allora capivo di essere nel posto giusto. Dove c’era lei, c’era la notizia»: così la ricorda Lucia Goracci, inviata di Rainews24. Ma la fotografa dell’Associated Press, premio Pulitzer, è diventata l’ennesima vittima di un paese al collasso ed è stata uccisa nella provincia di Khost, vicino al confine con il Pakistan. A sparare una guardia armata afgana. Solo poche settimane prima erano morti a Kabul il giornalista svedese Nils Horner e l’afghano Sardar Ahmad.

Era il 19 novembre del 2001 quando Maria Grazia Cutuli, inviata del Corriere della Sera, stava percorrendo la strada che da Jalalabad porta a Kabul. Stava seguendo una notizia, la più importante dell’anno per un’inviata: la caduta del regime dei talebani. Un agguato, la fine. È stata giustiziata, insieme all’inviato di El Mundo Julio Fuentes e a due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari.

A volte però non serve partire, la guerra può essere nel tuo paese, a casa tua. Era in casa Regina Martinez Perez quando è stata uccisa, a Vera Cruz, in Messico, uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti. Nella sua ultima settimana, di lavoro e di vita, era immersa in un’inchiesta sui Los Zetas, un potente cartello del narcotraffico. Era il 28 aprile del 2012. Solo nel mese di maggio moriranno poi altri sei giornalisti. L’ultimo caso noto è quello di Gregorio Jimenez, sempre a Veracruz nel febbraio di quest’anno. La porta di casa sua, invece, Anna Politovskaya non l’ha più aperta. Era in ascensore quando un killer l’ha freddata con quattro proiettili, il 7 ottobre 2006, per le sue denunce sulle violenze in Cecenia. Lei e tanti altri suoi colleghi del giornale Novaya Gazeta erano in prima linea con inchieste scomode al potere ed hanno pagato con la vita la loro dedizione.

Ma cosa unisce queste persone così lontane, così diverse, vittime di una guerra senza confine al libero pensiero e alla libera informazione? L’indipendenza intellettuale, la libertà e il mestiere di raccontare, attraverso il testo o le immagini. Ma come vivono i giornalisti il loro rapporto con la paura? Come una compagna imprescindibile e a volte preziosa della loro vita.

«Quando l’ho visto steso sul piano di metallo dell’ospedale, che non respirava, che era bianco, mi ha fatto effetto, perché è la prova che quello che tu temi è reale. Può succedere anche a te». Steso su quel piano di metallo c’era Raffaele Ciriello, fotografo italiano ucciso a Ramallah, in Palestina, nel 2008. A parlare è Pier Paolo Cito, un suo collega e amico con una lunga esperienza di giornalismo di guerra: Afghanistan, Siria, Kosovo, striscia di Gaza sono alcune delle zone in cui ha visto morire civili, ma anche giornalisti. «Facciamo questo lavoro ma pensiamo che non succederà a noi. Non vai lì a fare il martire». E certo non erano andati a fare i martiri Ghislaine Dupont e Claude Verlon, inviati di Radio France International, rapiti ed uccisi a Kidal, in Mali, lo scorso 2 novembre. Sapevano di correre dei rischi, ma hanno deciso comunque di andare ad intervistare il capo tuareg Ambery Ag Rhissa, leader del movimento per l’indipendenza del Mali settentrionale. Cinque pallottole hanno fermato le loro parole.

A questo punto verrebbe da chiedersi: può davvero valere la pena sacrificare la propria vita per una missione? Immaginava questa domanda anche Marie Colvin, la reporter statunitense uccisa in Siria il 22 febbraio 2012. In un discorso tenuto nel 2010 alla St. Bride’s church a Londra aveva risposto così: «Molti di voi ora si staranno chiedendo: vale davvero la pena? Possiamo davvero fare la differenza? Ho affrontato questa domanda quando sono stata ferita in un’imboscata, in Sri Lanka. La mia risposta oggi come allora è: si, ne vale la pena. All’epoca dei blog, di Twitter, di Internet, siamo in contatto costante. Ma il giornalismo di guerra è rimasto più o meno lo stesso: qualcuno deve andare lì e vedere cosa sta succedendo. La vera difficoltà è avere abbastanza fiducia nell’umanità da credere che i governi, l’esercito o l’uomo della strada avranno interesse a leggere quello che hai scritto, per la stampa, la televisione, o il web. Noi abbiamo questa fiducia. E pensiamo di poter fare la differenza».

Jacob, un fotogiornalista a piazza Maidan

“Se a dicembre quello che mi aveva attratto era stata la totale partecipazione delle persone, la grande speranza che le cose potessero cambiare, quando sono tornato a febbraio la situazione era completamente diversa, tesa. Tutti i dimostranti, a quel punto, andavano in giro col passamontagna, il giubbotto antiproiettile. L’entusiasmo lasciava spazio alla vocazione al martirio”.

di Laura Aguzzi

Assistere alla Storia, quella con la s maiuscola, mentre avviene. Osservare l’innescarsi degli eventi, i cambiamenti, le emozioni e le delusioni di una nazione in lotta con il proprio destino. Può succedere, quando si è reporter di professione. Ma con i tempi della produzione mediatica odierna le permanenze si accorciano, l’esperienza umana viene meno, anche quando si coprono eventi di grande rilievo internazionale e di lunga durata. Si arriva in un posto e si fa una cronaca sulla base di quegli elementi che si riescono a trovare nei pochi giorni, a volte nelle poche ore, di permanenza. In mezzo a questo scenario, in cui i grandi reportage che hanno reso famosi giornalisti come Kapuściński, Fallaci o Terzani sarebbero oggi impossibili da realizzare, c’è ancora chi prova a fare questo mestiere in maniera diversa. Certamente con difficoltà e precarietà. Ma scegliendo di raccontare la complessità, aldilà delle immagini riprese a livello globale, che troppo spesso nascondono i volti degli individui dietro quelli della massa.

Jacob Balzani Lööv

Jacob Balzani Lööv – Credits: Amin Musa

Jacob Balzani Lööv, fotogiornalista e scrittore, ha osservato la rivoluzione ucraina fin dal suo incipit. In quest’intervista, realizzata mentre si trovava a Kiev a fine marzo, ci racconta cosa ha visto e che impressione ha ora di un paese sull’orlo di una guerra civile. Jacob tu hai avuto modo di seguire gli avvenimenti in Ucraina a più riprese fin da novembre. Qual è stata l’impressione che hai avuto quando sei andato lì la prima volta? La prima manifestazione che ho visto era molto pacifica e in buona parte era anche depoliticizzata. C’erano molti studenti e poteva sembrare una nostra manifestazione in Italia. C’era un grosso supporto della popolazione ma non sembrava paragonabile a quello della Rivoluzione Arancione del 2004. Quando ho lasciato Kiev pensavo che sarebbe finita lì. Invece era solo l’inizio. Quando è iniziata a cambiare la protesta? Il fattore scatenante è stato il pestaggio degli studenti a piazza Maidan, proprio sotto la colonna, la notte del 30 novembre. È stato questo che ha fatto arrivare gran parte della gente in piazza e li ha fatti arrivare per rimanere. Se all’inizio si chiedeva solo una ristrutturazione del trattato di collaborazione con l’Unione Europea, da lì in poi si è iniziato a chiedere le dimissioni del presidente Viktor Yanukovych. Diversi gruppi sono arrivati in piazza, anche tante persone con un’esperienza militare, ad esempio veterani dell’Afghanistan o addirittura dell’Angola.

Tre giovani scherzano all'interno dell palazzo occupato delle "Trade Union"

Tre giovani del 14emo gruppo di auto-difesa di Maidan scherzano nella Casa dell’Architettura

Com’era stare in piazza in quei giorni? La cosa bella di essere in piazza all’inizio di dicembre era vedere la spontaneità, la voglia di tutte le persone di poter dare il loro contributo verso il successo di Euromaidan. C’era una grande partecipazione. Fino al giorno in cui Yanukovych ha accettato questo patto con la Russia per ricevere 35 miliardi di dollari. È stato allora che ho visto la maggior parte delle persone perdere la speranza che si potesse raggiungere un risultato. E quindi si è radicalizzato il confronto? È diventato più politicizzato. Più le persone decidevano di rimanere in piazza più perdevano il loro posto di lavoro e c’era una forte paura che il governo avrebbe perseguitato chiunque continuasse a manifestare. E questo piano piano si è amplificato fino a quando in gennaio il governo ha fatto varare una serie di leggi contro chiunque si trovasse in piazza. A quel punto sono arrivati gli scontri di Hrushevskoho Street, dove sono stati uccisi i primi manifestanti.

Dimostranti in via Instituzkaya, sotto l'hotel Ucraina, aiutano nonostante la presenza di cecchini a spostare la pavimentazione di piazza Indipendenza per costruire muri di difesa

Nonostante la presenza di cecchini i dimostranti, sotto il Palazzo d’Ottobre, collaborano per costruire muri di difesa via Instituzkaya

Il giorno dei cecchini tu eri in piazza, cos’hai visto? Quello che mi ha colpito di quel giorno che poi è stato anche quello che ho fotografato è stata questa partecipazione collettiva, quasi un evento biblico. C’era il pericolo che sparassero ad altre persone, nessuno sapeva dove fossero i cecchini e nonostante questo la piazza era piena, tutti si davano da fare per spostare le pietre e trasportarle nella piazza dove stavano costruendo dei muri, c’era una catena umana di persone e vedevi questi muri ergersi quasi in tempo reale davanti ai tuoi occhi. Tu che impressione hai avuto della copertura che i media italiani e stranieri hanno dato della rivoluzione? Non c’è stata subito una grande attenzione, soprattutto nella parte più pacifica della rivoluzione, che secondo me era anche la più bella. La gran parte dell’attenzione è arrivata dopo gli scontri in Hrushevskoho Street e poi quando molti manifestanti sono stati uccisi dai cecchini. E sei riuscito a capire un po’ qual è stata la copertura da parte dei media ucraini? Qui in Ucraina, la lotta è stata giocata tantissimo dai media fin dall’inizio. Prima erano le televisioni di Yanukovych contro le televisioni non di Yanukovych. Adesso sono le televisioni russe contro le televisioni ucraine. Poi, oltre alle grandi reti, ci sono anche tanti media locali. Da questo punto di vista penso che la rivoluzione sia stata coperta in maniera eccezionale. C’era tantissima gente sempre a filmare qualsiasi cosa succedesse: c’è una registrazione di tutto quello che è accaduto. Io sono stato ospite di due professori ucraini e loro guardavano ininterrottamente sul computer in streaming tutto quello che accadeva in piazza, che veniva passato ininterrottamente da novembre fino alla fine e ancora adesso. Certo c’era una grande differenza tra le notizie di Kiev e quello che dalla capitale arrivava verso le campagne. Ed è anche per questo che ho deciso di andare nell’est dell’Ucraina: per capire cosa filtrasse, quale fosse la partecipazione nel villaggio della prima vittima da arma da fuoco delle manifestazioni, Serhiy Nigoyan. Chi era quest’uomo? Serhiy Nigoyan era uno studente. Aveva 20 anni ed era di origini armene. I genitori erano scappati dall’Armenia nel 1991 durante il conflitto del Nagorno-Karabakh e si erano trasferiti in Ucraina, in questa regione prevalentemente agricola. Tu sei andato a casa sua… Si, sono andato a Bereznuvativka, il suo piccolo paese. È vicino a Dnipropetrovsk, la campagna ucraina, a 500 km da Kiev. Si tratta di una di queste città segrete in cui era molto difficile avere accesso ai tempi dell’Urss, perché lì venivano costruite testate nucleari. E lui è venuto dall’est dell’Ucraina per manifestare contro il governo di Yanukovych? È venuto in piazza dopo il pestaggio degli studenti da parte delle forze speciali di polizia. Come tanti non poteva più restare a vedere quello che succedeva in televisione ma doveva prendere una posizione attiva. Per cui ha deciso di venire in piazza ed è rimasto quasi tutto il tempo a manifestare; è tornato a casa solo per un breve periodo, durante il capodanno ortodosso.

Un cantante intrattiene una dimostrazione a supporto del partito di  Yanukovich a Dnepropetrovsk

Un cantante intrattiene una dimostrazione a supporto del partito di Yanukovych a Dnipropretovsk

Ti sei accorto che nell’est dell’Ucraina c’era una realtà diversa rispetto a Kiev? L’est dell’Ucraina è piuttosto vasto. Oltre alla Crimea, che è particolarmente filorussa, ci sono anche le regioni di Donetsk che hanno sempre supportato Yanukovych. L’Ucraina dell’est è molto più industrializzata, essenzialmente perché lì c’erano giacimenti di carbone e sono state costruite fabbriche anche prima dell’invasione sovietica. Quest’industrializzazione è poi aumentata, trasformando quest’area in una zona di immigrazione dal resto del paese, prevalentemente rurale e quindi più povero. Nel mio viaggio ad est ho cercato di incontrare persone che la pensassero diversamente dai manifestanti, persone che supportassero Yanukovych e ho scoperto che la realtà è complessa. Ci sono persone che supportano il Partito delle Regioni (ndr quello di Yanukovych) perché garantisce maggiore stabilità al paese. Oppure ci sono tante altre persone che, pur in disaccordo con il governo, sono contrari all’occupazione della piazza: secondo loro si sarebbero dovute aspettare le prossime elezioni per cambiare il potere. E le accuse piovute da molti media? In molti hanno detto che le manifestazioni si stessero trasformando in un movimento fascista, razzista? Cosa ti è sembrato di questo racconto? Cercare di far passare questa dimostrazione come una manifestazione fascista o neonazista è stato fatto soprattutto dai media russi e più tardi da altri media occidentali. A dire il vero croci celtiche e simboli neofascisti io ne ho visti fin dall’inizio. In effetti, quello che ha tenuto insieme questi gruppi nella piazza è stato il nazionalismo. Ma il fatto di essere nazionalisti non significa automaticamente essere di destra, perché ci sono dei gruppi che sono riconosciuti come nazionalisti di sinistra, penso ad esempio all’ETA nei Paesi Bassi o Sinn Féin in Irlanda. Mi è sembrato che la composizione della piazza venisse trattata in modo abbastanza superficiale. Gruppi di destra ci sono, gruppi neonazisti ci sono. Ma è una piccola parte della piazza. Per la maggioranza delle persone con cui ho parlato non sono loro il problema principale, quanto piuttosto il rischio di invasione da parte della Russia. Solo in secondo luogo c’è la preoccupazione di riuscire a inquadrare questi gruppi di estrema destra, che hanno preso delle posizioni di potere nel governo. Qual è stata la reazione all’occupazione della Crimea? La vogliono indietro? No, però c’è paura che succeda qualcosa nell’est dell’Ucraina. Tutta l’attenzione, quella che doveva essere per la lotta alla corruzione, per costruire un governo migliore e per entrare in Europa è stata depistata verso la guerra. Tutti adesso pensano esclusivamente alla possibilità che si entri in guerra e tutte le decisioni di politica interna sono state lasciate un po’ da parte in questo momento, il che, vista la situazione economica dell’Ucraina, non è un fatto positivo.

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Reclute della guardia nazionale, facenti parte dei gruppi di autodifesa di Maidan, si allenano a Novvi Petrivsi

Tu hai seguito un gruppo di ragazzi e la loro esperienza della rivoluzione. Com’è il clima adesso tra di loro, cosa si aspettano? Ho seguito un gruppo di ragazzi che sta formando un gruppo di autodifesa: frequentano un corso nella guardia nazionale e imparano a usare per la prima volta delle armi vere. In tanti sono pronti a condurre una guerra partigiana nel caso in cui ci sia un’invasione dell’Ucraina da parte della Russia…niente di molto promettente! Quanti anni hanno questi ragazzi? Ci sono delle donne? I ragazzi che fanno il corso per la guardia nazionale sono per lo più uomini. La maggior parte ha vent’anni adesso: è la prima generazione nata al di fuori dell’Unione Sovietica, in uno stato ucraino indipendente. Sono le prime persone che crescono in Ucraina senza ricevere un’istruzione di tipo sovietico. Ma stando sul campo hai avuto l’impressione che la protesta fosse manovrata? Dal campo è difficile da vedere! Io posso dire se le persone erano spontanee in quello che facevano e certamente lo erano e lo sono ancora! Però indubbiamente c’è sempre qualcuno che cerca di trarre vantaggio dalla situazione, cerca di manovrare a proprio favore quello che sta succedendo. E tu come cerchi di raccontarlo il conflitto? Io ho sempre cercato di raccontarlo dal punto di vista delle persone, di trasmettere l’emotività e la partecipazione che c’era all’interno della piazza. Un giorno a un picchetto di una stazione televisiva ho incontrato una ragazza con un passamontagna: si vedeva solo questa treccia rossa che usciva sotto il berretto, lo smalto rosso sulle unghie. Le ho chiesto se potevo intervistarla il giorno dopo e lei il giorno seguente è arrivata vestita da studentessa, con dei vestiti normalissimi: non sarei riuscito a riconoscerla! Parlando abbiamo discusso delle differenze tra le proteste di dicembre e di febbraio: io le raccontavo il mio stupore di fronte al cambiamento e lei mi confermava che l’entusiasmo e la voglia di cambiamento c’erano ancora ma bisognava ormai cercarle sotto i passamontagna. È un’idea che continuo a coltivare, perché voglio vedere come sia possibile il passaggio da un tipo di dimostrazione pacifica a un tipo di dimostrazione violenta, in cui questi ragazzi hanno iniziato a coprirsi il volto, indossare un giubbotto antiproiettile e andare in giro armati con dei bastoni.

Quasi quasi mi faccio un brand

cover libroLa rete non è soltanto uno sconfinato territorio di ricerca di informazioni o di socializzazione. Per tanti è anche uno strumento di lavoro. Ma se sei nella rete, e vuoi socializzare, condividere, dire la tua o vendere un prodotto (editoriale e no), deve farti riconoscere: devi costruirti un Personal Branding. Insomma, devi diventare (e i puritani storceranno il naso) una “marca”. “Fai di te stesso un brand” di Riccardo Scandellari è un libro che si occupa di questo: anzi è un vero e proprio manuale, una miniera di grandi e piccole istruzioni, per “costruire una forte identità online”. Pubblicato da Dario Flaccovio Editore (www.darioflaccovio.it), il testo non scende negli aspetti tecnici (ci sono tanti libri che spiegano come configurare una pagina Facebook o Twitter o come aprire un blog) ma illustra quello che avviene dopo: spiega cioè come sfruttare le potenzialità dei maggiori social network per affermare la propria identità online, insegna a utilizzare al meglio il proprio blog per “creare un’immagine chiara e coerente” e “mettere le basi per crearsi un seguito e amministrarlo”. L’autore, il ferrarese Roberto Scandellari, giornalista e creativo (il suo sito è www.skande.com) si occupa di web dal 1998, e con Rudy Bandiera (che ha curato la prefazione del libro) ha fondato l’agenzia NetPropaganda. Da “Fai di te stesso un brand” pubblichiamo alcune preziose “istruzioni” di base.

di Riccardo Scandellari

riccardo scandellariC’è una ricetta per la visibilità online. Semplificando al massimo, gli ingredienti base sono due: identità (personale o aziendale) e contenuto. L’identità è definita come Brand Identity se sei un’azienda o Personal Branding se sei una persona: è un fattore da studiare e non lasciare al caso perché potresti rendere meno efficaci i contenuti di qualità che andrai a creare.
I contenuti possono essere testuali o visuali (foto e video) e sono quelli che faranno parlare di te creando interesse verso la tua persona e di conseguenza verso i tuoi prodotti e servizi.
Il contenuto di qualità è la vera colonna portante per il successo dei siti web e nella comunicazione sui social media. Analizziamo quali sono i cinque requisiti e competenze per ottenere il successo professionale in questo settore.

Ecco ciò che servirebbe:

ABILITA’ DI SCRITTURA – I lettori scelgono il tuo contenuto perché è interessante, ironico e anche un pochettino furbo. Chi ti legge pensa di ottenere un ritorno di tipo conoscitivo e culturale, per quello ti leggono, dovrai tenerne conto dal titolo in poi.

SVILUPPARE LE TUE CAPACITA’ DI RICERCA ONLINE – Ovviamente non sai di qualsiasi argomento; la capacità di scrivere del tema trattato, per te o per un tuo cliente, con competenza, dovrà sottostare ad un lavoro di ricerca di informazioni accurata. Nello scrivere dovrai tenere conto del pubblico di riferimento e farti la seguente domanda: “cosa interesserà ai potenziali lettori?”.

IMPARARE A SFRUTTARE STRATEGICAMENTE I SOCIAL MEDIA – Inutile girarci attorno: finito il lavoro contenutistico, lo si deve supportare con una buona azione di PR online, individuare gruppi e community su Linkedin, Facebook e Google+. Crearsi un network di amicizie più autorevoli possibile ben disposte a darsi una mano reciprocamente. E sfruttare ogni piattaforma sociale al meglio, seguendo le caratteristiche più congeniali alla viralizzazione del contenuto (es. gli hashtag per Twitter, le foto per Facebook, ecc., ci sono migliaia di trucchetti).

DIVENTARE UN BLOGGER – Con il termine blogger si intende una persona capace di: saper utilizzare una piattaforma WordPress (o equipollente), associare immagini pertinenti ai testi, titolare e valutare la notiziabilità di un argomento. Inoltre dovresti saper variare la grafica e il layout in modo da ottenere la massima resa di lettura e condivisione. Questo elemento non è di secondaria importanza: ho visto troppi blog con ottimi contenuti e pessimi template che non favorivano il lettore.

SAPER OTTIMIZZARE IL CONTENUTO IN CHIAVE SEO – A mio avviso, questo è il punto meno importante, a meno che il tuo template non sia stato fatto in modo da bloccare i motori di ricerca e non abbia una struttura adeguata rispetto a ciò che Google richiede. A chi me lo chiede, consiglio sempre di pensare soprattutto ai lettori e curarsi in un secondo momento del posizionamento. Crea una buona base di lettori che ti apprezzerà per i buoni contenuti, il posizionamento verrà da sé.

Il curatore di contenuti è un mestiere in rapida ascesa e il compenso economico varia indicativamente dai 20.000 euro annui per una figura junior a 35.000/40.000 euro per un senior.
In linea di massima, il compenso rispecchia gli stessi livelli di un grafico in una normale agenzia di comunicazione. Per il 37% dei marketer, i blog aziendali sono una sorta di valore aggiunto alla loro comunicazione. L’avere incorporato un blog può generare al sito fino al 55% di visite in più, accrescere fino al 97% di link in ingresso e aumentare il numero di pagine indicizzate del 434%. Questi sono i dati pubblicati dall’azienda inglese Content Plus.

Un blog costantemente aggiornato con notizie e informazioni crescerà di volume, qualità e reputazione e attirerà i lettori che a loro volta ne condivideranno il contenuto. I blog di altri settori si collegheranno al tuo sito aumentandone l’autorevolezza. Le pagine di un blog hanno l’87% in più di link in ingresso rispetto alle pagine statiche del sito e sono il 63% più efficaci per influenzare le decisioni di acquisto. La lettura dei post riesce a generare un atteggiamento positivo verso la marca che dimostrerà di sapere dell’argomento che tratta. Il blog aumenta l’efficacia delle strategie di marketing sui social media e sfruttandolo come fulcro, nelle comunicazioni sociali, può essere utilizzato per misurare l’efficacia del ritorno e nella generazione di contatti.

Content marketing: un modo di creare e condividere contenuti per promuovere un’idea, coinvolgere un pubblico e spingerlo a compiere l’azione. Si tratta di un approccio integrato e mirato al marketing, che ha al centro contenuti di qualità.
Il content marketing aumenterà la tua visibilità e reputazione, facendo percepire il tuo valore. E’ il miglior modo per aumentare le possibilità di ottenere lavoro, contatti e proposte.

Il tuo nome è il tuo marchio

Dovrai tendere a separarti dalla massa senza nome, costruendoti un’identità distinta, distinguibile e promuovendo il tuo nome attraverso una strategia su tutti i media che andrai ad adottare. La strategia è fondamentale perché dovrai porti un obiettivo o più obiettivi e lavorare per realizzarli:

  • Fissa target realistici, come: aumentare le visite al blog o ottenere un certo numero di condivisioni e conversazioni
  • Trova la tua nicchia: se hai una particolare idea politica o un settore professionale in cui vuoi importi cercando di parlare e soprattutto raggiungere il tuo pubblico naturale
  • Individua le piattaforme sociali più adatte. Guarda l’attività all’interno di questi social per determinare se sono appropriati alle tue esigenze e se ci sono gruppi o community di cui fare parte con i tuoi contributi
  • Interagisci con gli influencer del settore. Scoprirai velocemente che anche per il tuo campo esistono persone più in vista e dalla grande visibilità. Se riuscirai nel tempo a farti apprezzare e interagire con essi, ti sarà più semplice accrescere la fama e la stima verso il tuo operato e i tuoi contenuti.

Un’immagine riconoscibile

Hai capito che il contenuto sarà l’arma per poter creare interesse verso te o la tua azienda, quindi veniamo al secondo ingrediente della ricetta della visibilità in rete: la tua immagine!
So benissimo che non ci si dovrebbe mai fermare alle apparenze, ma purtroppo sono loro a dettare legge. Per l’azienda è più semplice: di solito, l’immagine con cui farsi riconoscere è il logo, alcuni ne hanno di terribili ma se lo studio grafico che l’ha creata è fatto da gente serie e preparata, si avrà a disposizione qualcosa che è già riconoscibile e che fa parte di tutta l’immagine coordinata che fornitori e clienti sanno distinguere a prima vista.
La cosa è diversa se sarai tu a metterti in gioco con una operazione di personal branding per aumentare la tua reputazione in rete. In questo caso l’immagine è la tua immagine, è una delle poche cose che, almeno all’inizio, si ricorderanno di te. La tua foto è la cosa che rimarrà in memoria maggiormente. A un head hunter distratto oppure a un manager frettoloso nel valutare fornitori, collaboratori o consulenti con buona percentuale, quello che gli rimarrà impresso di te passerà attraverso la tua foto.
Ho migliaia di professionisti collegati a me su Linkedin e ogni volta mi stupisco dell’unica immagine consentita a corredo del profilo. Alcune di esse sono veramente incredibili: c’è chi posta la foto vestito da crociato (immagino sia stata fatta ad una rievocazione storica), chi la foto del cane o gatto di famiglia, chi posta la foto del figlio oppure una divertente polaroid scattata quando era bambino sporco di cioccolata, alcuni monumenti storici e simboli di partito; oppure simboli contro la caccia, per la pace, contro la guerra, per la legalizzazione delle droghe leggere e altre amenità inqualificabili.
Non servono particolari sforzi artistici: si tratta di una foto sola che ritrae in primo piano, magari in giacca e cravatta (per gli uomini), mentre le donne hanno qualche libertà in più, ma non troppe e mi raccomando senza occhiali da sole.
Nella foto dovrai apparire sorridente, ma non troppo e trasmettere sicurezza e simpatia (per quanto è possibile).
Alcune eccezioni sono consentite: chi fa un lavoro creativo, oppure basa il suo personale branding su un’immagine particolare già riconosciuta in altre piattaforme o blog potrà riproporla in modo da essere subito riconoscibile. Alcuni non mettono la foto: se sei preoccupato per la tua privacy, allora il web non fa per te.

Oltre alla foto serve anche una bio

E’ stato scritto tanto su come aumentare il numero di fan follower e seguaci sulle varie piattaforme sociali.
Una delle componenti primarie che fa sì che gli utenti siano invogliati a seguirci è la “bio”, quei pochi caratteri che dovrebbero rappresentarci e che sono sempre troppo pochi per dire tutto quello che vorremmo. Tanto pochi ma tanto fondamentali per dare la prima impressione di noi stessi e di cui non siamo mai stati appagati. La mini bio la troverai su Twitter, Instagram e una cosa simile chiamata “titolo” sotto il tuo nome in Linkedin. Dovrai farti bastare 160 caratteri per spiegare in modo sintetico cosa stati facendo, oppure chi sei.

Alcuni consigli su cose da evitare assolutamente:

  • Non scrivere come un adolescente, i caratteri sono pochi ma abbastanza per scrivere parole senza inutili abbreviazioni
  • Cercare il più possibile di evitare di scrivere cose esagerate come “sono il guru del web” o “il migliore pizzaiolo di Napoli”, specie se non è vero. Verresti preso per spammer
  • Non lasciarlo vuoto. Potrebbero pensare che non hai idee
  • Sfidare chi inciampa nel tuo profilo con frasi tipo: “seguimi se hai il coraggio”, sono simpatiche ma otterrebbero l’effetto contrario
  • Non è il luogo giusto in cui scrivere citazioni famose
  • Non copiare le bio di altri, magari leggi quelle dei personaggi che più ti piacciono per ispirarti, ma non fare copia e incolla

Ricordati che alla gente piace seguire tre tipi di account:

  • Chi ha interessi simili
  • Quelli da cui possono imparare qualcosa
  • Persone famose o fonti di notizie

Cosa scrivere nella bio

Vediamo cosa scrivere per attirare un pubblico giusto per te. La tua professione, se ti occupi di vini o di automobili dovrai inserire un riferimento a questi settori. Inserire le aree di competenza professionali è sempre una buona cosa: “esperto CAD”, “progettista elettrico” o “giornalista” sono alcuni esempi.
Usa anche aggettivi per rinforzare la comunicazione e allontanare la freddezza delle bio asettiche, ad esempio “blogger entusiasta” o “chef curioso” per far percepire che non lavori solo per i soldi.
Successivamente, se rimane spazio, puoi aggiungere qualcosa di personale come “con l’hobby della fotografia” o “amante delle auto d’epoca”. Questo ti farà percepire in modo più caldo. Ricordati che le parole chiave sono importanti e che molti ti troveranno in base a quello che scriverai, ma cerca di non abusarne, perché l’effetto che otterrai sarà di farti trovare ma non farti seguire.

Poveri innovatori

FOTO 2Esce in Italia “Jugaad Innovation”, pubblicato da Rubettino. Un libro rivoluzionario, che ha avuto un enorme successo all’estero. Jugaad è una parola che in hindi descrive un processo di innovazione che proviene dal basso ed è in grado di creare soluzioni efficienti a costi contenuti, una vera e propria “rivoluzione culturale” che sfida i modelli di produzione dell’Occidente.
Come si racconta nel libro, molti CEO di grandi aziende spingono i dipendenti a liberare la loro creatività e a inventare modi frugali e sostenibili per dare un significativo valore aggiunto agli stakeholders, usando meno risorse naturali e risparmiando capitale della compagnia. Grazie ai numerosi case studies riportati, “Jugaad Innovation” costituisce un vero e proprio “manuale di sopravvivenza” per le aziende occidentali e un viaggio nei meandri dei mercati emergenti. L’edizione italiana di Rubettino è a cura di Giovanni Lo Storto e Leonardo Previ. La prefazione è di Federico Rampini, una delle firme più prestigiose di “Repubblica”, grande conoscitore, oltre che degli Stati Uniti e della Cina, dello straordinario universo indiano. “In questo periodo – scrive Rampini – non è facile convincere un italiano che noi abbiamo qualcosa da imparare dall’India contemporanea. Questo saggio sull’innovazione Jugaad è il modo migliore per provarci, prendendo in contropiede pregiudizi e stereotipi”. Pubblichiamo un ampio estratto della prefazione.

di Federico Rampini

FOTO 1La prima volta che mi sono imbattuto in una innovazione Jugaad, questa aveva l’aspetto dimesso di un elettrodomestico low cost. Per la precisione una lavatrice da cinquanta euro, della marca Videocon. Un apparecchio plebiscitato dalle massaie indiane non solo per il basso costo, ma per un altro aspetto che lo rende prezioso: una speciale memoria elettronica programmata per neutralizzare i blackout elettrici, e consentire al programma di lavaggio di riprendere indisturbato là dove si era interrotto, non appena la corrente torna (magari molte ore dopo). È un esempio emblematico.

Si tratta di un’innovazione stimolata da due ostacoli, due difficoltà: il basso potere d’acquisto da una parte, l’inaffidabilità dell’energia elettrica dall’altra. Due anomalie indiane, a prima vista? In realtà quel tipo di innovazione Jugaad si rivela perfettamente adatta a rispondere ai bisogni e alle restrizioni di una vastissima platea di consumatori: il ceto medio delle nazioni emergenti. Un ceto medio molto meno abbiente del nostro. E tuttavia desideroso di affacciarsi ai primi comfort moderni che sono gli elettrodomestici, l’automobile o la moto, il turismo di massa, l’istruzione avanzata, e così via.

È nella piccola borghesia asiatica, latinoamericana, sudafricana, che ci sono le prospettive di crescita dei consumi più forti nei prossimi decenni. Nessun’azienda che voglia fare strategie di medio-lungo periodo, può ignorare quel formidabile serbatoio di potenzialità. Inoltre un effetto della Grande Contrazione iniziata nel 2008, è che anche nei Paesi avanzati dell’Occidente siamo in una fase di stagnazione del potere d’acquisto. Di conseguenza i temi del “consumo frugale” sono attuali anche per noi, non solo per il ceto medio cinese o indiano, brasiliano o sudafricano. Ecco perché negli Stati Uniti e in Inghilterra ha ricevuto tanta attenzione questo saggio, che spiega agli occidentali che cos’è l’innovazione Jugaad e quanto può essere utile anche per noi.

Jugaad è un vocabolo hindi (o anche urdu, l’idioma-gemello dell’hindi usato in Pakistan), indica un’idea che serve a risolvere rapidamente un problema. Spesso è una scorciatoia, un espediente improvvisato per aggirare un ostacolo. Evoca quella che per noi italiani è l’arte di arrangiarsi: la necessità di usare l’ingegno per sopperire alla mancanza di risorse, all’inefficienza, ai mille ostacoli di una realtà arretrata. C’è anche un oggetto specifico che in India viene chiamato Jugaad: è una sorta di camion, diffuso nelle zone rurali più povere, che viene assemblato dai falegnami montando un motore diesel su un vecchio carro-buoi. I tre autori di questo libro sono di origine indiana, conoscono bene quel Paese, ma hanno avuto brillanti carriere in Occidente. Navi Radjou fa il consulente strategico nella Silicon Valley californiana. Jaideep Prabhu è docente alla Business School di Cambridge in Inghilterra. Simone Ahuja è un’imprenditrice, fondatrice della sua società di consulenza, con sedi a Minneapolis negli Stati Uniti e a Mumbai in India. È stata anche la produttrice di un fortunato documentario televisivo sui temi dell’innovazione. Una tesi centrale del loro saggio è quella che l’innovazione di tipo Jugaad, creativa e al tempo stesso frugale, non è utile solo nelle nazioni emergenti. Dobbiamo fare prova di umiltà, e impararne gli ingredienti anche noi: vuoi perché il futuro delle nostre imprese e delle nostre economie dipende dalla nostra capacità di interpretare i bisogni delle nazioni emergenti; vuoi perché noi stessi siamo entrati in un’Età Frugale e i consumatori dei Paesi occidentali hanno bisogno di risposte nuove ai loro bisogni.

FOTO 3I tre autori cominciarono a studiare il modello indiano e quello di altre nazioni emergenti tanti anni fa, in cerca di quella strategia alternativa all’innovazione. Un conto è fare ricerca e sviluppo in un laboratorio modernissimo, ricco di fondi, nella Silicon Valley. Altro è tentare di innovare in mezzo al caos, all’imprevedibilità di una società emergente come quella indiana, o brasiliana. E tuttavia alcune delle innovazioni nate in quei contesti hanno avuto una diffusione vastissima e rapida: perché le nuove tecnologie digitali hanno abbattuto barriere e distanze, consentendo all’idea vincente di viaggiare con la velocità della luce. La soluzione che si adatta ai bisogni della massaia indiana è la stessa che può conquistare istantaneamente centinaia di milioni di consumatrici africane. L’innovazione Jugaad nasce da un rovesciamento di approccio: la scarsità di risorse, gli ostacoli economici, la mancanza di infrastrutture, la burocrazia inefficiente, si trasformano in opportunità perché diventano altrettanti stimoli. Le soluzioni Jugaad sono prodotti o servizi semplici, essenziali. I consumatori meno abbienti non sono più visti come un mercato minore, o addirittura come popolazioni da aiutare con sussidi e carità, al contrario diventano un motore di sviluppo.

Ratan Tata, patriarca dell’omonima dinastia che è uno dei maggiori imperi economici indiani, diede a modo suo un’interpretazione della Jugaad. Nella ricerca del profitto il gruppo Tata spesso guarda alla parte bassa della piramide sociale, vuole inventare prodotti e servizi adatti a Paesi dove il grosso dei consumatori si situa a livelli di reddito modesti. Ma talvolta, così facendo, azzecca l’innovazione che può far presa anche su mercati più avanzati. La Nano, la prima auto da duemila euro, nacque nei centri di design di Tata. «Voi europei – disse Ratan Tata – credete che per noi sia tutto più facile, perché guardate al vantaggio competitivo del nostro costo del lavoro. Provate a guardare la realtà da un altro punto di vista. È proprio perché il potere d’acquisto del ceto medio indiano è ancora molto basso rispetto al vostro, che noi viviamo sotto una formidabile pressione competitiva, siamo costretti a raggiungere livelli di efficienza superiori per sfornare prodotti a costi accessibili per i nostri consumatori». Il motofurgone più diffuso in India è l’Ace Tata che fu lanciato con un prezzo di listino inferiore a 4.000 euro. Nello stesso spirito il gruppo Tata lanciò la catena dei motel Ginger con una tariffa iniziale sotto i 20 euro a notte,
e la garanzia di igiene, bagni singoli, wi-fi e aria condizionata in tutte le stanze. (…)

Il 2014 si è aperto all’insegna di una nuova percezione occidentale dell’India. La crisi del 2008, iniziata in America e poi dilagata in Europa, aveva già aperto un ripensamento critico su alcune storture e perversioni della “prima globalizzazione”. La tentazione in Occidente è spesso quella di indicare un colpevole in “Cindia”. La crescita di nuove classi medie asiatiche e l’esplosione dei loro consumi viene descritta come il colpo di grazia per il pianeta. Per un indiano è duro sentirsi dire che mangia troppo, quando la dieta proteica anche nel ceto medio alto di Mumbai o Bangalore resta la metà dell’americano medio. Lo stesso vale per la nuova abitudine di additare la Cina come il mostro che distrugge gli equilibri ambientali. Non c’è dubbio che l’impatto cinese è devastante sulle risorse naturali, se non cambia modello di sviluppo. Ma in Cina attualmente ci sono dieci automobili ogni mille abitanti; negli Stati Uniti ci sono 480 auto ogni mille abitanti. Temere la crescita delle nazioni asiatiche come una calamità, è disonesto. Con questi atteggiamenti giustifichiamo nei Paesi emergenti l’idea che l’Occidente è una roccaforte di ricchi egoisti, i quali hanno razziato le risorse naturali selvaggiamente, per poi predicare l’ambientalismo, la frugalità e l’austerità ai più poveri. La contesa tra “noi” e “loro” per le risorse naturali sempre più scarse – non solo l’energia ma anche l’acqua, e le terre coltivabili – è reale. Sarà uno dei temi dominanti nei prossimi decenni. Questa corsa può prendere una piega estremamente pericolosa.

L’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, uno degli osservatori più acuti della politica internazionale, ha scritto: «Il centro di gravità degli affari internazionali si sposta dall’Atlantico al Pacifico e all’Oceano Indiano. Due saranno le tendenze che definiranno la diplomazia nel XXI secolo: il rapporto tra le potenze asiatiche, Cina, India, Giappone e Indonesia, e il rapporto tra Cina e Usa. In passato, simili smottamenti nella struttura del potere generalmente portavano a una guerra».

Per capire cos’è il Nuovo Mondo in cui vivremo noi e i nostri figli, è essenziale osservare ciò che sta accadendo nei luoghi dove il ritmo del cambiamento è più veloce. Queste aree dove avvengono trasformazioni storiche, disegnano i contorni del XXI secolo e ci influenzeranno durevolmente. Sono questi i laboratori del futuro, eppure gli italiani li conoscono ancora poco. Scoprirli ci aiuta a ridurre l’angoscia e le paure irrazionali. Il 2014 è stato segnato dalle forti turbolenze economiche, valutarie e finanziarie che hanno colpito l’India, insieme con tutti i Brics (la sigla che racchiude la cinque maggiori economie emergenti: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Fughe di capitali, crolli di Borse, svalutazioni, hanno colpito la rupia indiana e la Borsa di Mumbai, così come Bangkok, Buenos Aires e Istanbul. È finito il lungo “miracolo” di Brics e dintorni? L’India ha pagato il prezzo di una classe politica e amministrativa corrotta, di riforme sempre rinviate, di un apparato burocratico costoso, di una rete infrastrutturale inadeguata. E così via. Per molti occidentali, a un pregiudizio se n’è sostituito un altro.

L’innamoramento per l’India si è ribaltato nel suo opposto. Per gli italiani,mettendo in fila una dopo l’altra notizie come la crisi sui marò, gli stupri, e il tracollo della rupia, l’India è tornata rapidamente a occupare il posto che le spettava fino agli anni Novanta: un gigante malato. In realtà la crisi dei Brics nel 2014 ha cause più generali, alcune delle quali vanno cercate in America. Per descrivere le cause delle fughe di capitali che hanno colpito oltre all’India anche l’Indonesia e la Thailandia, l’Ucraina e il Brasile, l’Argentina e il Sudafrica, il governatore della banca centrale del Brasile, Alexandre Tombini, ha parlato di un “effetto aspirapolvere”. L’aspirapolvere, secondo il banchiere centrale di Brasilia, sono i rialzi dei rendimenti in Occidente. Innescati dalla decisione della Federal Reserve americana di ridimensionare gradualmente il “quantitative easing” (creazione di liquidità attraverso acquisti di bond). Con i rendimenti che diventano più interessanti sia in America sia in Europa per effetto della ripresa (o delle aspettative di ripresa, per l’Europa), tanti capitali speculativi abbandonano le piazze esotiche dove erano affluiti negli ultimi anni. L’alta marea del credito facile si ritira, lo spettacolo che rivela nelle zone rimaste a secco fa paura. Quello che era l’arco della crescita globale, è diventato l’arco di una nuova crisi. Tutto ciò che porta l’etichetta “emergente” diventa sinonimo di fragilità improvvisa. I dollari stampati a Washington avevano allagato il pianeta, gonfiato bolle speculative da Shanghai a Johannesburg, da Istanbul a San Paolo.

Bei tempi, quando il ministro brasiliano dell’economia Guido Mantega si lamentava per la “guerra delle valute”, cioè la svalutazione competitiva del dollaro, effetto collaterale della massiccia liquidità. Erano tempi in cui i Brics ricevevano troppi capitali, pertanto i loro mercati immobiliari, le loro Borse e le loro monete si rafforzavano troppo. Oggi è in atto il movimento inverso. Con la bassa marea i capitali rifluiscono, abbandonano le piazze calde. Le nazioni più vulnerabili sono quelle che negli anni d’oro investirono troppo e male, con progetti faraonici, spesso occasioni per vaste corruzioni.

Sull’innovazione Jugaad si sono levate delle voci critiche anche ai vertici del capitalismo indiano. Lo spirito autocritico non manca, in quel Paese. E così, quando il corrispondente del «Financial Times» a Mumbai, James Crabtree, intervistò il grande imprenditore Anand Mahindra (a capo di un impero equivalente a quello dei Tata come dimensioni), quest’ultimo ebbe dei giudizi molto duri sulla Jugaad. Se applicata ai giganteschi problemi dell’India, disse Mahindra, la Jugaad rischia di essere una legittimazione di soluzioni di serie B, improvvisazioni che non curano il male. Va anche ricordato che il camion Jugaad – quello assemblato dai falegnami montando un motore diesel su un carro agricolo – è stato messo sotto accusa in India per la scarsa sicurezza, l’inaffidabilità, gli incidenti mortali. C’è una Jugaad buona e una Jugaad cattiva. L’arte di arrangiarsi può stimolare la creatività, oppure il pressapochismo. È un tema che noi italiani possiamo capire.

Gli americani non cadono nello schematismo e nella semplificazione eccessiva, che porta tanti italiani a passare da un estremo di innamoramento verso l’India, all’estremo opposto della sua esecrazione. Forse qui negli Stati Uniti dove io vivo, aiuta il fatto che gli indiani sono una élite di straordinario successo. Proprio come i tre autori di questo saggio sulla Jugaad. Sono meno dell’1% della popolazione americana, eppure gli indiani scalano i vertici del capitalismo americano, dilagano al comando delle maggiori aziende. La Microsoft ha nominato uno di loro, Satya Nadella, come nuovo chief executive all’inizio del 2014. L’incarico che fu di Bill Gates e Steve Ballmer, ora è occupato da un ex allievo del liceo statale di Hyderabad nello Stato dell’Andhra Pradesh. A 46 anni, Satya Nadella è già un veterano della Microsoft, cominciò a lavorarci nel 1992,mentre frequentava il Master della Business School di Chicago con un pendolarismo da supermaratoneta (andava a Chicago quasi ogni weekend, 4 ore di volo dal quartier generale Microsoft vicino a Seattle). Nadella ora è il capo di un colosso di centomila dipendenti, una delle più grandi società americane per capitalizzazione di Borsa.

La notizia della sua nomina ha scatenato l’entusiasmo nella sua città natale, Hyderabad. Nadella si unisce a una folta schiera di suoi connazionali che occupano posti di potere nel capitalismo Usa. Solo nella Silicon Valley, le start-up tecnologiche fondate da imprenditori indiani sfiorano il 15% del totale. Contando i chief executive, tra i più celebri ci sono Indra Nooyi alla guida della Pepsi Cola; Shantanu Narayen di Adobe Systems; Francisco D’Souza di Cognizant Technology Solutions; SanjayMehrota di San Disk; Ravichandra Saligram di Office Max; Dinesh Paliwal di Harman International Industries. A Wall Street la Citigroup era guidata dall’indiano Vikram Pandit.
Se c’è una lezione più generale da apprendere, che ci riconduce al tema della Jugaad: bisogna rifuggire dalla pigrizia intellettuale, che ci rende incapaci di generare il cambiamento.

New York, 20 febbraio 2014

 

Un ritratto di Putin

di Nicole Di Giulio e Nicola Mechelli

Il protagonista delle crisi ucraina è il presidente russo Vladimir Putin. Ha coniato la sua immagine in modo da conquistare il popolo russo, nonostante le proteste non manchino. Non è riuscito a farsi amare in occidente. Una scelta forse, voluta? Diversamente di Barack Obama che con il suo sorriso e i suoi discorsi piace a tutti. Un idealismo mediatico, quello di Obama, che ha conquistato il mondo, dagli Usa all’America Latina, dall’Africa all’Asia.

La manipolazione

di Carlotta Balena

La manipolazione avviene sul contenuto ma anche sulla forma, passa sia per il cosa viene detto sia per il come viene detto. Una notizia può essere deliberatamente falsificata, la si può dare solo in parte, si può scegliere di non dirla proprio, o dirla con un linguaggio criptico, difficile da capire. Se il pubblico non capisce, non sa, non conosce di cosa stiamo parlando. E non è informato. I media hanno il potere di suggerire ai cittadini intorno a che cosa pensare, ed offrono una lista di argomenti sui quali avere un’opinione e discutere. In altre parole direzionano l’opinione pubblica. Quello su cui però bisogna riflettere è il fatto che per essere veramente efficace, la manipolazione implica sempre un coinvolgimento attivo del pubblico.

Le basi

  • Come si manipola l’informazione. Il maccartismo e il ruolo dei media, Andrea Barbato, Editori Internazionali Riuniti, 1996.
  • Comunicazione, Potere e Contropotere nella network society, Manuel Castells, International Journal of Communications, 2006
  • Fidati! Gli esperti siamo noi, Sheldon Rampton, Nuovi Mondi Media, 2004
  • I cospiratori del tabacco, Articolo sulle ricerche di Robert Proctor, scritto da Paul Yeung per l’agenzia stampa Reuters del 25/02/2012
  • I persuasori occulti, Vance Packard, Einaudi, 2005
  • Il problema della manipolazione: peccato originale dei media?, Guido Gili, Franco Angeli Editore, 1996
  • La comunicazione interpersonale, Kurt Danziger, – Zanichelli 1982
  • La folla solitaria, David Riesman, Il Mulino 2009
  • La manomissione delle parole¸ Gianrico Carofiglio, Rizzoli, 2010
  • La società postpanottica, Massimo Ragnedda. Controllo sociale e nuovi media – Aracne 2008 (testo sociologico scaricabile gratuitamente)
  • Le mille luci di New York, McInerney Jay, Bompiani, 2000
  • L’opinione pubblica, Walter Lippmann, Donzelli Editore, 2004
  • L’uomo e la società in un’età di ricostruzione,  Karl Mannheim, Comunità 1959
  • L’uomo eterodiretto – 1959 (brano tratto da “Umano e disumano” di Remo Cantoni)
  • Neuroschiavi. Liberiamoci dalla manipolazione psicologica, politica, economica e religiosa, Marco Della Luna; Paolo Cioni, Macro edizioni, 2012
  • Non pensare all’elefante, George Lakoff,  Fusi orari editore 2006
  • Propaganda, disinformazione e manipolazione dell’informazione, di Chais, Bronner, Pizarroso Quintero, 2009 editore Aracne
  • Propaganda. Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia, di Edward Louis Bernays, Fausto Lupetti Editore
  • Reti di indignazione e speranza : movimenti sociali nell’era di internet, Manuel Castells, Università Bocconi, 2012
  • Storytelling. La fabbrica delle storie, di Christian Salmon, 2008 editore Fazi
  • The father of spin, Edward L. Bernays and the birth of public relations, di Larry Tye
  • Theodor W.Adorno ed altri, Analisi de “La personalità autoritaria” – G.Polimeni- filosofico.net
  • Trust Me, I’m Lying: Confessions of a Media Manipulator,  Ryan Holiday
  • Un giornalista quasi perfetti, David Randall, 2009, Laterza
  • What is Media Manipulation? –  Ryan Holiday – Forbes 16 july 2012

Manipolazione nella storia

  • L’invenzione della tradizione, di Hobsbawm e Ranger, edizioni Einaudi

Guerre, rivoluzioni e informazione

  • Rivoluzioni s.p.a. Chi c’è dietro la Primavera Araba, di Alfredo Macchi, Alpine Studio
  • Guerra e mass media, di Enrico de Angelis, Carocci, 2007
  • Media e guerra, visioni postmoderne, di Philip Hammond, Odoya, 2008

Articoli su casi particolari

  • •Twitter Mischief Plagues Mexico’s Election – Mike Orcutt June 21, 2012 – MIT Technology Review (articolo su manipolazioni elettorali effettuate con Twitter in Messico e altri paesi)
  • •Diktat di Pechino a due milioni di cinesi “Ora tutti su Weibo a fare propaganda” – La stampa 18/01/2013 (articolo sulla propaganda politica istituzionalizzata in Cina sul Twitter cinese)
  • •False recensioni online, si muove la procura di New York – La stampa 24/09/2013 (articolo sulle inchieste della Procura di New York per smascherare il traffico di recensioni false)
  • •Michael Luca , Reviews, Reputation, and  Revenue: The Case of  Yelp.com – September 16, 2011 Harvard Business School