Il caso Spotlight, anteprima a Perugia

Lunedì 15 febbraio alle ore 21 Bim Distribuzione presenta l’anteprima de Il caso Spotlight, il nuovo film di Tom McCarthy con Mark Ruffalo, Micheal Keaton e Rachel McAdams, candidato a 6 premi Oscar® e in uscita nelle sale il prossimo 18 febbraio.

Alla proiezione presso il cinema Zenith parteciperanno i praticanti giornalisti della Scuola di Giornalismo radiotelevisivo di Perugia ai quali la Bim Distribuzione ha riservato gli ingressi gratuiti.

Il film sarà introdotto da Dennis Redmont, docente della Scuola di Giornalismo ed ex direttore dell’Associated Press per l’Italia ed il Mediterraneo. Alla fine della proiezione seguirà un dibattito sul film.

 

Cinema Zenith, lunedì 15/02/2016
Spettacolo unico ore 21:00
intero 6,00 euro, ridotto 5,00 euro
Per prenotazioni: 3939007564

 

Cultura, Creatività e Multimediale

In Europa il settore culturale e creativo contribuisce alla crescita economica, all’occupazione, all’innovazione e alla coesione sociale. Rappresenta circa il 4,5 % del prodotto interno lordo europeo e impiega il 3,8 % della forza lavoro (8,5 milioni di persone) (dati Commissione europea, anno 2014).

“L’industria culturale” rappresenta un settore particolarmente importante per l’Italia. La filiera culturale e creativa italiana – comprensiva di industrie culturali e creative, ma anche di quella parte dell’economia nazionale che viene attivata dalla cultura, a partire dal turismo – è un pilastro del made in Italy. Le imprese del sistema produttivo culturale italiano compongono un composito universo fatto di: industrie culturali, industrie creative, performing arts e arti visive, attività legate alla gestione del patrimonio storico artistico e produzioni di beni e servizi a driver creativo.

Dalle 443.208 imprese del sistema produttivo culturale, nel 2014 è arrivato il 5,4% della ricchezza prodotta in Italia (dati Unioncamere 2015). Qualcosa come 78,6 miliardi di euro (5,4% della ricchezza prodotta in Italia), che arrivano a 84 circa (il 5,8% dell’economia nazionale) se includiamo istituzioni pubbliche e non profit. Ma la forza di cultura e creatività va ben oltre, grazie a un effetto moltiplicatore pari a pari a 1,7 sul resto dell’economia. Una leva che, per ogni euro prodotto dalla cultura, ne attiva ulteriori 1,7 in altri settori. Gli 84 miliardi, quindi, ne ‘stimolano’ altri 143, per arrivare a 226,9 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano.

Una ricchezza che ha effetti positivi anche sul fronte occupazione: le sole imprese del sistema produttivo culturale – ovvero industrie culturali, industrie creative, patrimonio storico artistico e architettonico, performing arts e arti visive – danno lavoro a 1,4 milioni di persone, il 5,9% del totale degli occupati in Italia (1,5 milioni, il 6,3%, se includiamo pubblico e non profit).
La cultura e la creatività, inoltre, sono in grado di incentivare le nostre imprese: chi ha investito in creatività (impiegando professionalità creative o stimolando la creatività del personale aziendale) ha visto il proprio fatturato salire del 3,2% tra il 2013 e il 2014; mentre tra chi non lo ha fatto il fatturato è sceso dello 0,9%.

Negli ultimi cinque anni l’export legato a cultura e creatività è cresciuto del 135% (da 30,7 miliardi nel 2009 a 41,6 nel 2013), fino a rappresentare il 10,7% delle vendite oltre confine delle nostre imprese, con un surplus commerciale con l’estero di 25,7 miliardi, secondo solo a quello della meccanica.

Può fortunatamente dunque oramai dirsi acclarato il ruolo della cultura come infrastruttura immateriale capace di generare ricchezza.

Per quanto concerne l’ambito “media”, riguarda l’industria europea dell’audiovisivo e del cinema. Si tratta di investimenti nei settori dello sviluppo, distribuzione e promozione di opere creative.
Incoraggia il lancio di progetti con un‘ampia dimensione europea e l’applicazione di nuove tecnologie digitali; permette ai film e alle opere europee inclusi lungometraggi, fiction televisive, documentari, animazione, opere non lineari e vidoegiochi di viaggiare oltre i confini nazionali ed europei; sostiene attività di formazione continua per i professionisti e gli operatori dell’industria.

In un contesto economico come quello attuale, caratterizzato da una forte contrazione delle fonti di finanziamento, i fondi europei rappresentano un imprescindibile strumento per finanziare la crescita e lo sviluppo strategico delle imprese, delle organizzazioni e degli operatori.

Esistono due tipologie di finanziamenti che arrivano da Bruxelles: i fondi diretti (detti anche “fondi competitivi”) che vengono trasferiti dalla Commissione europea ai beneficiari che partecipano ai bandi aperti dalla stessa commissione; i fondi indiretti (conosciuti anche come fondi strutturali) che sono trasferiti dall’Unione europea alle autorità interne agli Stati (nel caso dell’Italia, le Regioni).

Il Master “Progettazione e accesso ai fondi europei per la Cultura, la Creatività e il Multimediale” diversamente da molti dei corsi presenti sul mercato, offrirà l’opportunità di approfondire le modalità di accesso ad entrambe le tipologie di fondi.

A scuola di Fiction: “come narrare una storia perché il mondo la ascolti”

di Lorenzo Grighi

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Laurie Hutzler durante una lezione del master

Romanzo criminale, Gomorra, 1992. Serie che hanno cambiato il modo di guardare, e di pensare, alla televisione italiana.

Prodotti di eccellenza, esportati anche all’estero, a dimostrazione che fare fiction di qualità è possibile anche in Italia.

Ma per scrivere sceneggiature di quel calibro non basta il talento: è necessario studiare, esercitarsi, correggere, cancellare e ricominciare da capo. Tanto meglio se nel farlo si è accompagnati da chi quel lavoro lo fa da una vita, da chi conosce tutti i trucchi del mestiere.

Per questo il Centro di Formazione di Perugia ha organizzato il primo Master di scrittura seriale di fiction, in collaborazione con Rai-Radiotelevisione Italiana/Direzione Rai Fiction, con il sostegno di ASFOR Cinema, Associazione Produttori televisivi (APT) e BNL Gruppo BNP Paribas.

Un corso di quattro mesi in cui sedici ragazzi in arrivo da tutta Italia si confrontano, spesso anche duramente, con le difficoltà della scrittura seriale. Un tipo di scrittura, come spiegano gli stessi docenti del Master, che è molto diversa da quella di un romanzo.

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L’ultimo libro di Bobette Buster

Occorre tenere bene a mente tutti gli elementi che sono propri della serialità, gli aspetti che si devono ripetere, la caratterizzazione dei personaggi, il modo in cui tenere sempre viva l’attenzione dello spettatore.

Un lavoro che i ragazzi stanno affrontando insieme a professionisti in materia, come Stefano Bises, Ivan Cotroneo, Giancarlo De Cataldo, Nicola Lusuardi, Andrea Purgatori, ma anche con sceneggiatori provenienti da Hollywood e dall’Inghilterra: Bobette Buster, Laurie Hutzler e Serena Cullen.

Family, drama, comedy, crime, melò: uno sguardo a tutto tondo sul mondo delle serie Tv, dallo studio teorico (con quelle che hanno fatto scuola, su tutte Breaking Bad) all’applicazione pratica.

Quella formazione pratica che è poi il vero obiettivo del corso. Al termine del Master ciascuno dei gruppi in cui si sono divisi i ragazzi (alcuni da quattro, altri da due componenti) dovranno infatti presentare la puntata pilota di una nuova serie da loro ideata.

Progetto non semplice, che sta assorbendo le energie fisiche e mentali dei partecipanti, che tra una lezione e l’altra, tra un docente e l’altro, approfittano delle pause per confrontarsi sull’ultima idea, sull’ultima intuizione che potrebbe rendere la propria serie migliore delle altre.

Lavoro che peraltro non finisce al termine delle 8 ore di lavoro quotidiano: gli stessi ragazzi raccontano di lunghe serate e nottate trascorse a discutere, alcune volte anche in maniera animata, per raccogliere gli spunti migliori di tutti e metterli nero su bianco. Ciascuno dice di aver colto alcuni insegnamenti fondamentali dai diversi docenti che si sono alternati, e si dicono entusiasti dell’esperienza che stanno maturando.

Sedici ragazzi “chiusi” all’interno di una villa per essere addestrati a diventare scrittori seriali. Un po’ Grande Fratello, un po’ Agata Christie. Chissà, magari qualcuno sta già pensando di farci una serie Tv.

C’è un cookie in tutti noi

Mamma posso spiegarti, lavoro nel webE’ vero che senza Web non si vive? Ormai la risposta è sì. Non c’è una sola attività umana che non sia finita su qualche piattaforma: “Secondo i dati di uno degli ultimi report della società belga Email-Brokers, che ha analizzato tutti i paesi della comunità europea sulla mortalità delle imprese, l’83% delle aziende italiane fallite nel 2013 non era sul Web. Questo non significa che il non esserci state sia stato il motivo del fallimento, ma che non avere avuto una predisposizione al cambiamento e all’evoluzione le ha rese deboli nei confronti della concorrenza, specie quella estera che ha compreso meglio di quella del Belpaese quanto sia essenziale una nuova e rapida capacità di reazione alle evoluzioni sociali, economiche e tecnologiche.” Così Riccardo Scandellari, esperto di personal branding e reputazione online, nella prefazione a “Mamma posso spiegarti, lavoro nel Web” di Riccardo Mares, una delle ultime pubblicazioni della collana Webbook di Dario Flaccovio Editore. Non è la prima volta che citiamo questa stimolante collana che ha il merito di stampare opere divulgative sulla rete scritte spesso da giovani nativi digitali che nella rete lavorano a tempo pieno. Mares è, infatti, un giovane programmatore, web designer, SEO e web marketer che accompagna il lettore nell’universo (che lui chiama “intergalattico”) del Web, con consigli anche su quali percorsi di formazione frequentare. Il titolo fissa anche l’idea del salto generazionale: spiegare alla mamma (alle mamme analogiche) che lavorare nel Web non è lo stigma di una stravaganza, o una perdita di tempo, ma una professione vera e propria. Da “Mamma posso spiegarti, lavoro nel Web” pubblichiamo il brano dedicato ai dati e alla loro analisi. Attenzione: ogni volta che ci affacciamo sulla pagina di un sito, lasciamo una traccia della nostra identità.

di Riccardo Mares

google analyticsDiciamo subito che chi pratica la web analytics si suddivide in due famiglie: chi sa leggere i dati (o sa dove andare a leggerli) e chi li sa interpretare.
Diciamo che la prima famiglia è abbastanza nozionistica, ovvero, una volta che si ha cognizione di che dati lo strumento di analisi mette a disposizione e come si fa a raggiungere quei report il lavoro è fatto. Chi li sa interpretare invece è colui che dà valore aggiunto. È un po’ come la differenza tra dato e informazione: l’informazione è basata sui dati ma il dato preso in forma solitaria non fornisce alcuna informazione. Se per esempio ti dico che un sito fa 1000 pagine viste al giorno ti sto dando un dato. Quel dato – se non contestualizzato – non ha alcun valore: può essere un dato piccolissimo (immagina se da domani mattina il sito de La Stampa di Torino facesse 1000 pagine viste al giorno) o un dato enorme (il foodblog amatoriale del ragazzino iscritto all’istituto alberghiero che fino a ieri viveva di 10 visite al giorno).
Un altro esempio facile: un hotel al mare probabilmente vedrà il traffico crollare dopo ottobre. È chiaro che quel dato è normale, visto che è un hotel al mare. Si tratta di un’interpretazione “automatica” basata sul preconcetto che al mare ci si va d’estate.
Parto quindi con l’abc più spicciolo, ovvero le definizioni base delle parole che è necessario usare per parlare di web analytics: so che è un passaggio un po’ noioso, però è necessario. Per le definizioni userò come standard il linguaggio di Google Analytics (GA), ovvero il prodotto più diffuso tra i siti web di tutto il mondo (assolutamente il top tra i gratuiti e meglio di molti prodotti a pagamento), anche se ogni tanto Google si diverte a cambiargli il nome.

Visualizzazioni di pagina
Numero totale di pagine visualizzate. Comprende le visualizzazioni ripetute della stessa pagina. Se invece si vogliono vedere le visualizzazioni di pagina, escludendo quando la pagina è già stata vista durate una sessione di navigazione, bisogna guardare il dato “Visualizzazioni di pagine uniche”.

Sessioni (o visite)
Numero totale di visite da parte di un utente: se un utente non compie attività all’interno del sito, per un tempo superiore a quello impostato nel tempo di sessione (solitamente 30 minuti), all’accesso successivo diventa una nuova sessione. Il tracciamento della sessione avviene tramite cookie, la cui scadenza – corrispondente al tempo di sessione – viene posticipata ad ogni nuova visualizzazione di pagina all’interno di una sessione corrente.

UtentI
Il sistema solitamente cerca di individuare i singoli navigatori, a prescindere dalla scadenza del tempo di sessione: quelli sono gli utenti. Anche questo viene tracciato con cookie, la cui durata – o meglio scadenza – in GA è di due anni da quando è stato scritto o aggiornato.

Frequenza di rimbalzo
La frequenza di rimbalzo è la percentuale di visite che non vanno oltre la pagina iniziale prima di uscire da un sito. Se 30 visite che accedono alla pagina “A” non continuano la navigazione, quella pagina avrà una frequenza di rimbalzo del 30%. Questo dato è importante su siti con navigazione, nel caso di siti monopagina perde significato.

Durata di una sessione
Strettamente legata alla frequenza di rimbalzo, la durata di una sessione viene conteggiata dall’inizio di una sessione, fino a che l’utente non esce dal sito (tramite un link che porta fuori dal sito). Attenzione: il calcolo avviene tra una registrazione di pagina vista e l’altra, all’interno di una sessione di navigazione: l’ultima pagina – che per sua definizione non ha una successiva page view – avrà un tempo nullo, cioè non calcolabile.

Tempo sulla pagina
La durata media della visita è la durata totale di tutte le visite/ il numero di visite. La durata di una sola visita viene calcolata in modo diverso a seconda che vi siano eventi di coinvolgimento nell’ultima pagina di visita.

Sorgente di traffico
È la fonte da cui è nata una nuova sessione. Si divide principalmente in:

– diretta: l’utente ha scritto l’indirizzo completo del sito o della pagina sul browser. Vengono conteggiate come dirette anche le visite che arrivano tramite link da strumenti che non segnalano informazioni in merito alla provenienza, ad esempio il programma Outlook con i link dentro una e-mail;
– referral: la sessione ha avuto inizio grazie a un link su un sito esterno. Per questo tipo di visite è possibile conoscere e analizzare le sorgenti di quel traffico;
– organica: dai motori di ricerca. Google Analytics – per i motori conosciuti – inserisce in questi report i dati di provenienza. Per questo tipo di visite è (era per Google) possibile conoscere la query di ricerca. Per i motori sconosciuti ( o che non si “presentano” come motori di ricerca) i dati vengono inseriti nel report referral. Google Images – ad esempio – viene ancora tracciato come referral;
– social: dai social network. Per i social sconosciuti (o che non si “presentano” come motori di ricerca) i dati vengono inseriti nel report referral;
– pagamento: da circuiti di traffico a pagamento se configurati correttamente, compreso AdWords. Per i circuiti sconosciuti (o che non si “presentano” come motori di ricerca) i dati vengono inseriti nel report referral.

(Not Provided)

Da aprile 2014 – in modo assoluto – Google ha deciso di non passare più al sito che riceve visite referral l’informazione in merito alla query ricercata, in quanto lesiva per la privacy. Per questo nei report di Google Analytics relativi al traffico da Google la percentuale maggiore di accessi è data da (not provided), ovvero “non te la do”.

Pagina di destinazione

È la pagina da cui inizia una nuova sessione di navigazione. Ogni pagina di destinazione avrà una sorgente di traffico.

Conversione

In Google Analytics è possibile definire cosa è una conversione, ovvero un obiettivo di conversione. Ci sono vari modi per farlo, ad esempio, una conversione può essere la visita di una pagina dopo aver visitato una serie di pagine in altro ordine. Nel caso di una e-commerce la conversione primaria è l’acquisto. Nel caso di una pagina di raccolta profili (lead) la conversione è l’avvenuta compilazione di un modulo. Nel caso di un blog le conversioni potrebbero essere il numero medio di pagine per visita o il click sulle pubblicità (nel caso del circuito Adsense si integra direttamente con Google Analytics riportandone i ricavi).

Il pubblico: so chi sei!

Una delle macro aree di report in cui è diviso Google Analytics è quella relativa ai visitatori e al loro comportamento. Alcune delle informazioni mostrate – non li ho chiamati dati appositamente – sono costituite da dati già elaborati da Google Analytics, il quale le ha interpretate tramite particolari schemi. Ad esempio analizzando il browser o l’IP del navigatore è in grado di suggerire da dove l’utente arriva e che lingua utilizza come predefinita.
Da dati derivanti principalmente dai suoi canali di pubblicità (e cookie vari), Google Analytics riesce a proporre informazioni demografiche: età, sesso, interessi. Quindi GA è in grado di suddividere gli utenti in base alla tecnologia e al sistema operativo usati per navigare. Ci sono poi i dati comportamentali che mostrano il numero di pagine viste per utente, la durata delle sessioni, e molte altre informazioni incrociando pagine – sessioni – utenti.

Acquisizione: da dove arrivano?

In questa famiglia di report sono indicati i dati dell’origine del traffico del sito. Ho già chiarito il tipo di traffico definendo le sorgenti di traffico. È una delle sezioni più importanti, soprattutto per capire il ritorno degli investimenti fatti su un sito: SEO, pubblicità, SMM, ecc.
Dopo il (not provided) l’analisi del traffico organico, su cui si riversa l’influenza delle azioni SEO, viene fatta tramite l’analisi delle pagine di destinazione: solitamente la homepage è quella che raccoglie il traffico del nome dell’attività (brand) o della chiave primaria per cui è stata ottimizzata quella pagina.

Comportamento: che combini nel mio sito?

In questa macro sezione – specifica per l’analisi delle visualizzazioni di pagina – si può vedere il traffico di ogni singola pagina o evento tracciato nel sito. Non solo, si possono verificare le performance del sito, le pagine di destinazione e di uscita (ovvero le pagine finali di una sessione), le ricerche interne e i flussi di navigazione da una pagina all’altra.

Conversioni: i traguardi

Ultima famiglia, ma forse quella di primaria importanza, quella delle conversioni. Qui pulsa il cuore dell’analytics e qui è dove lo specialista perde le sue giornate per capire cosa davvero rende nel sito e cosa invece è ancora da ottimizzare. È fondamentale – affinché questa sezione dia risposte concrete – che la configurazione e il tracciamento degli obiettivi siano perfetti (o quasi).
Per ogni conversione è possibile associare il ricavo, il costo e il percorso che l’utente ha fatto per convertire, dalla sorgente (che può essere anche esterna) fino all’arrivo al traguardo.

Postilla

Il mio timore dopo aver scritto questo paragrafo è di averti creato un po’ di confusione. Il mio obiettivo era quello di darti una panoramica completa di uno dei prodotti migliori presenti sul mercato e la capacità (curiosità) di conoscerne potenzialità e configurazioni necessarie.
Il mio consiglio è quello di riprendere in mano questo paragrafo con un Google Analytics davanti, magari già pieno di dati e configurato, ben configurato.
Ricordati – come premesso – che tutto è relativo e ogni dato deve essere interpretato dall’analista: siti diversi, target d’audience diversi, obiettivi diversi possono – con i medesimi dati – dare significati completamente diversi.

“Ciò che noi misuriamo influenza le nostre azioni. Se usiamo gli indicatori sbagliati, ci sforzeremo di raggiungere obiettivi altrettanto sbagliati.” (Joseph E. Stiglitz)

QUESTO SPAZIO E’ APERTO ANCHE AL CONTRIBUTO DI GIORNALISTI, ESPERTI, STUDIOSI E OPERATORI DELL’INFORMAZIONE E DELLE COMUNICAZIONI DI MASSA. SE VUOI PUBBLICARE UN ARTICOLO, INVIA IL TESTO A:

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GLI ARTICOLI SARANNO PUBBLICATI SE RITENUTI INTERESSANTI E IDONEI.

Torino, città regina e città operaia.
Come le sue api

Laura Aguzzi

Laura Aguzzi

Tre mesi nella redazione de La Stampa, per contribuire alla realizzazione di contenuti per il sito, i dispositivi mobili e i social network della testata torinese.

È l’opportunità che ha offerto il Premio Giornalistico “Lauretana, Nella Vietti”, giunto alla seconda edizione e mirato alla scoperta dei giovani talenti del giornalismo digitale.

La giuria alla fine ha scelto Laura Aguzzi, 29 anni, di Rieti, ex allieva della nostra Scuola di giornalismo radiotelevisivo, formatasi come praticante a Perugia durante l’XI biennio (2012-2014).

Qui di seguito il suo reportage sul “segreto di Torino”: le api, il miele, gli alveari e una società che li gestisce in modo innovativo. Laura ha raccontato con un videoreportage la storia di Antonio Barletta, che a Torino è riuscito a unire la sua passione per le api e per quella città. Così quattro anni fa inizia a realizzare il primo progetto di apicultura urbana.  

di Laura Aguzzi

Urbees Torino

Dalla pagina Facebbok del Progetto UrBEES

Prendere un caffè seduti accanto a 120mila api. Sembra impossibile eppure può succedere in pieno centro a Torino. Il terrazzo di Antonio Barletta, ideatore e fondatore di Urbees, è infatti anche la sede di due degli alveari della sua impresa locale. Qui, migliaia di piccole operaie continuano imperterrite il loro lavoro, senza curarsi di chi viene a osservarle.

L’avventura di questo trentenne inizia quattro anni fa, durante il suo lavoro come maschera in teatro, dopo un passato in Fiat. Lì incontra un apicoltore esperto e la passione per le api si unisce a quella per la città: nasce così il primo progetto di apicoltura urbana in Italia.

Un movimento, come ama definirlo Antonio, che ha già preso piede in tutte le maggiori metropoli europee e americane. E che oggi giunge in Italia nella sua città laboratorio.

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Dalla pagina Facebbok del Progetto UrBEES

In totale la produzione annua di Urbees si aggira attorno ai 240 kg di miele: è il miele di Torino. Dal 2010 gli alveari di Urbees si sono moltiplicati e oggi sono dislocati in luoghi diversi: dal Parco d’arte vivente (PAV), dove le api sono ospitate in un’installazione artistica, al Bunker, centro sociale nel quartiere Barriera di Milano. Qui, oltre a sale da concerti, capannoni industriali, orti urbani e una piscina da wakeboard, ci sono anche otto arnie per le api.

C’è qualcosa di vagamente modaiolo nel darsi all’apicoltura in città. Eppure la questione delle api è seria: lo dimostra anche il recente interesse del presidente americano Barack Obama, che a giugno ha varato un piano speciale per la loro protezione. Le api sono fondamentali per la coltura di frutta e ortaggi, ma sono in pericolo a causa delle campagne inquinate dai pesticidi. Per questo negli ultimi anni hanno iniziato a migrare verso le città, dove il clima temperato e la varietà di spazi verdi si rivelano per loro un ottimo ambiente.

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Dalla pagina Facebbok del Progetto UrBEES

L’aspetto più innovativo messo in luce da Urbees riguarda per l’azione delle api come bioindicatori. “La domanda che mi sento rivolgere più spesso è: il miele di città è inquinato? – si stupisce Antonio – Le analisi fatte smentiscono questi timori: il nettare che l’ape raccoglie è in un ambiente protetto del fiore ed è estremamente filtrato. Ad essere esposto all’inquinamento è invece il polline: analizzandolo, grazie alle api, si possono individuare sostanze nocive, come radionuclidi o idrocarburi. Un’operazione che se fatta attraverso postazioni meccaniche richiederebbe un investimento di decine di migliaia di euro”.

Nel centro di Torino oggi c’è una sola centralina per il controllo della qualità dell’aria. Quindici alveari e un’azione costante di analisi riuscirebbero invece a coprire l’intera città. Su questo aspetto per UrBees lavorano Valentina Mandirola, che si occupa di progettazione e divulgazione, e Francesca Cirio, che cura la mappatura della biodiversità urbana. Anche grazie al loro contributo, il progetto, selezionato assieme ad altri sei su 179 candidati, ha vinto il premio Sodalitas Challenge. UrBees da ottobre sarà quindi inserita in un incubatore d’impresa, il milanese Make a Change, specializzato in idee ad alto valore sociale e ambientale.

Ma nel fare il grande salto vengono al pettine anche i nodi del sistema imprenditoriale italiano. “In Italia ci sono moltissime start up – si sfoga Antonio – con tante belle idee. Quello che manca sono gli investimenti, qualcuno che dia modo a queste iniziative di crescere.” Quello che Antonio spera possa accadere a UrBees. Un obiettivo per il quale si batte con la stessa operosità delle sue api. E con la speranza di ottenere dal suo lavoro frutti almeno altrettanto dolci.

Il tuo sito in dodici mosse (da evitare)

Inbound Marketing

Quando si parla di marketing, i giornalisti si insospettiscono. Non hanno torto. Il legittimo fine di chi opera nel marketing è di convertire l’utente in cliente. L’informazione, naturalmente, è un’altra cosa. Lo sforzo fondamentale di ogni giornalista è di raccontare la realtà e il risultato finale del giornalismo dovrebbe essere quello di rendere il più possibile consapevole il “cittadino” della complessità del mondo che lo circonda. Il web, tuttavia, ha infranto molti muri e oggi i confini tra la funzione del giornalismo e il “mare magnum” della comunicazione si sono fatti labilissimi. Chi si occupa di marketing, soprattutto in rete, sa che la pubblicità non è più sufficiente e che ogni prodotto o ogni servizio messo in vendita non deve essere solo ben esposto nelle vetrine virtuali ma deve anche essere sostenuto e avvolto da contenuti. Anche nel marketing, come nel giornalismo, i contenuti sono diventati sempre più essenziali. I sospetti, perciò, non bastano più. Anzi, appare più che mai utile l’antico precetto di Luigi Einaudi: “Conoscere per deliberare”. Infatti, in questa gigantesca e ribollente officina della comunicazione, è ormai impensabile immaginare che il giornalismo si volti dall’altra parte, supponente e infastidito, e che non capisca quali sono i meccanismi del marketing. Non certo per essergli alleato, né tantomeno per farsene complice, ma per conoscerlo a fondo e per comprendere i suoi nuovi linguaggi e la sua funzione comunicativa oltre che quella mercantile. Il libro che presentiamo, “Inbound Marketing”, si occupa delle “nuove regole dell’era digitale” delle strategie di vendita, a cominciare proprio dall’inbound, dalla capacità cioè – attraverso i siti online – di farsi trovare in rete dai potenziali clienti. Scritto da Jacopo Matteuzzi, un giovane esperto del settore, “Inbound Marketing” è pubblicato dall’editore Dario Flaccovio (www.darioflaccovio.it) nella interessantissima collana Webbook ricca di titoli interamente dedicati al web e scritti da giovani autori “nativi digitali” (segnaliamo anche il volume fresco di stampa “Come vendere con il blog aziendale” di Alessio Beltrami). Il brano che qui riproduciamo aiuta a comprendere come nasce un sito aziendale, di quali strumenti essenziali esso deve dotarsi e quali sono i principali errori da evitare, se si vuole stare in rete in modo seducente e produttivo.

di Jacopo Matteuzzi

Jacopo Matteuzzi“Perché non va bene il sito che ho già?”, ti starai domandando. Ovviamente non posso saperlo con certezza, ma quello che so è che se hai fatto come il 90% delle aziende, il tuo sito assomiglia a una “brochure online”. Mi piace usare questo termine perché descrive perfettamente come non dovrebbe essere un sito. Prendiamo la definizione di brochure: è un opuscolo di poche pagine realizzato con lo scopo di promuovere attività commerciali, prodotti, eventi o altro. Ma l’obbiettivo dell’inbound marketing non è quello di “spingere” i tuoi prodotti, ma di attirare utenti, offrendo loro prima di tutto contenuti di valore. Se pensi che una brochure offra un qualche tipo di valore, chiediti se saresti disposto a pagare per acquistarne una. Se il tuo sito – come quello di tante aziende – è composto da una home page, una pagina “chi siamo”, una pagina “prodotti” (o “servizi”), una pagina “contatti” e poco o niente altro; oppure, se hai anche una sezione “notizie”, ma la usi solo per pubblicare la prossima fiera alla quale parteciperai, allora è esattamente quello di cui sto parlando: nient’altro che la versione digitale di una brochure. Chiamerò dunque d’ora in avanti questo tipo di spazi digitale col nome di siti-brochure. Il web è ancora oggi stracolmo di siti-brochure, e uno degli aspetti peggiori è che sono tutti maledettamente identici. Le aziende sono tutte “leader” o “giovani e dinamiche”. I siti-brochure sono caratterizzati in primo luogo dalla scarsità (per non dire totale assenza) di contenuti interessanti che possano in qualche modo essere utili agli utenti. Di solito hanno poche pagine scritte unicamente a scopo promozionale. Oppure hanno molte pagine perché hanno un catalogo con tanti prodotti. Anche in quest’ultimo caso si tratta di siti-brochure (se preferisci, siti-catalogo). Il punto non è solamente la quantità di contenuti, ma la tipologia: siti come quelli che ho descritto non offrono altro che materiale promozionale o informazioni sui prodotti. Se hai un sito del genere, pensa ai primi due obbiettivi dell’inbound marketing: attirare gli utenti e convertirli in contatti. Dovrai perciò cominciare col porti essenzialmente queste due domande: come fa un utente che non ti conosce ad approdare sul tuo sito, e perché un utente che ha visitato il tuo sito dovrebbe scegliere di acquistare da te piuttosto che dalla concorrenza. In sostanza, il tuo sito deve essere concepito per due soli scopi: farsi trovare e convertire. Un sito-brochure non risponde a nessuna di queste due necessità. C’è un altro punto da tenere in considerazione, legato al farsi trovare: un sito-brochure di norma non può posizionarsi bene sui motori di ricerca. Considera che ogni pagina del tuo sito è una potenziale pagina di atterraggio per gli utenti che cercano sui motori. Se hai poche pagine, hai meno possibilità di posizionarti con diverse frasi chiave del tuo settore. Il tuo scopo deve quindi essere quello di trasformare il tuo sito-brochure in un sito-hub. “Hub” è un termine inglese che sta a indicare un centro di attività, un fulcro o snodo importante. Se viaggi spesso in aereo, probabilmente hai già incontrato questa parola. Sono infatti chiamati hub quegli aeroporti di particolare importanza strategica utilizzati dalle compagine aeree come scalo principale per i loro collegamenti. Possiamo benissimo utilizzare questo definizione come metafora di ciò che dovrà diventare il tuo sito: un luogo di riferimento importante per persone interessate al tuo settore, un centro di atterraggio. In conclusione, se hai fatto come la maggior parte delle aziende, la brutta notizia per te è che dovrai al più presto rifare il tuo sito, completamente o in parte. Quella buona, però, è che ti darò un po’ di consigli per risparmiare tempo e denaro quando lo farai. Questo capitolo si potrebbe tranquillamente intitolare “come realizzare un sito senza rovinarti con le tue mani”, perché se il tuo sito non rende, non è detto che sia sempre colpa di chi l’ha realizzato (certo, esiste anche questa possibilità). Come molti nel mio settore, ho cominciato la mia avventura nel mercato digitale realizzando siti per piccole e medie imprese, per cui conosco bene l’approccio del tipico imprenditore quanto richiede la realizzazione di un sito. La fase progettuale di questa attività dovrebbe nascere dalla collaborazione tra l’imprenditore e l’agenzia o webmaster incaricato; per cui, se il risultato non è efficace, non è sempre e solo colpa dell’uno piuttosto che dell’altro. Sebbene ci siano tante web agency che lavorano bene, esistono (come in tutti i settori) anche i cialtroni. E’ quindi fondamentale scegliere il fornitore giusto, ma è anche possibile evitare di scavarsi la fossa con le proprie mani liberandosi di questi 12 errori tipici.

1. PENSARE AL SITO COME A UNA BROCHURE

Si può dire che questo sia il peccato originale di ogni azienda che si approccia al mondo del web. Ho già spiegato prima cosa intendo per sito-brochure e non occorre ripeterlo. Tante volte mi hanno chiesto di realizzare “un sito piccolo, massimo quattro o cinque pagine”. Credo che questo errore sia in parte dovuto al fatto che i clienti si aspettano un costo maggiore col crescere del numero di pagine. Questo non è del tutto falso: un sito di mille pagine richiederà ovviamente al webmaster un lavoro più lungo rispetto a uno di quattro. Ma se per risparmiare realizzi un sito di quattro pagine, puoi anche scordarti di poter applicare una strategia di inbound marketing. Tieni a mente che, ormai da parecchi anni, i siti web professionali sono dinamici, ovvero possono essere modificati nei contenuti da te, grazie ad appositi software che si chiamano CMS (Content Management System, ovvero sistemi di gestione dei contenuti). Questi software sono nati proprio per consentire a chi non possiede competenze di programmazione, di inserire, modificare, cancellare pagine di un sito, mediante l’accesso a un’area riservata protetta da password. Il CMS più diffuso al mondo (e anche il mio preferito) si chiama WordPress (wordpress.org). Se hai già a disposizione tanti contenuti prima di realizzare il tuo sito, ti conviene farti insegnare a utilizzare la piattaforma CMS e inserirli tu direttamente sul tuo sito. Dato che la vera forza del tuo sito saranno i contenuti, dovrai comunque imparare a utilizzare questo strumento, per poter aggiungere con facilità in seguito nuove pagine e articoli.

2. PENSARE AL SITO COME A UN ABITO SU MISURA

Se dovessi chiedere di progettare l’impianto elettrico della tua casa, o un sistema di pannelli solari per la tua azienda, ti sogneresti mai di dare suggerimenti all’elettricista o all’ingegnere su come dovrà essere svolto il suo lavoro? Eppure, tutti si sentono in dovere di dare consigli a un web designer su come vogliono che sia fatto il loro sito. Ma, al pari di un elettricista e un ingegnere, anche un web designer è un professionista. Lascia a chi è del mestiere il compito di stabilire come è meglio realizzare la grafica del tuo sito: così facendo, oltre a ottenere un lavoro a regola d’arte, molto probabilmente risparmierai tempo e denaro (ed evitare anche di farti odiare dal fornitore). Ma come, tu paghi e lui decide? Proprio così. Il punto è che un sito non è il tuo nuovo abito su misura, o l’arredamento del tuo ufficio, tanto meno un quadro da mettere in salotto, è il tuo principale strumento di marketing. Pertanto, l’obbiettivo non è che sia di tuo gusto, ma che sia efficace per svolgere il suo compito, cioè farti aumentare le vendite. Se ti affidi a un fornitore esperto di marketing su Internet, lui saprà come fare le cose al meglio anche senza il tuo “aiuto”. Inoltre, anche se il sito lo paghi tu, in ogni caso non dovrebbe piacere a te, semmai dovrebbe piacere ai tuoi utenti. C’è una celebre frase nel marketing che dice “tu non sei il tuo target”: vuol dire che un errore tipico delle aziende è di pensare che il pubblico di destinazione la pensi allo stesso modo in cui la pensano loro, dimenticando che le esigenze e gli obbiettivi del proprio cliente potenziale non sono quasi mai le stesse dell’impresa. Un sito realizzato secondo il proprio gusto e non sulla base di ciò che piace agli utenti risulterà molto probabilmente inefficace. Lascia che sia un web designer esperto, che ha già visto e fatto tanti altri siti, a decidere il da farsi.

3. GUARDARE I SITI DEI CONCORRENTI

Non c’è nulla di male ad analizzare il mercato, cercando di comprendere le strategie della concorrenza; ma quello che fanno quasi tutti, prima di farsi fare un sito, è guardare i siti dei principali concorrenti diretti e chiedere che venga realizzato un sito simile (ho avuto anche clienti che mi hanno richiesto un sito identico a quello di un concorrente), magari perché hanno sentito dire che la tale azienda sta andando bene. A meno che tu non abbia la certezza che un determinato concorrente sta portando avanti una strategia efficace su Internet, evita di percorrere questa strada. I tuoi concorrenti potrebbero avere successo grazie alla loro bravura e competenza, ma essere indietro per quanto riguarda la loro strategia di marketing sul web. Imitare pedissequamente non è mai un buon modo di eccellere in un mercato, e sicuramente non ti distinguerai dalla tua concorrenza se non fai altro che copiare le loro mosse.

4. TRASCURARE GLI ASPETTI SEO

Moltissimi danno per scontato che un’agenzia specializzata in siti web sappia perfettamente come realizzare un sito ottimizzato per i motori di ricerca. Altri credono addirittura che basti realizzare un sito e buttarlo in rete per essere automaticamente trovati da nuovi clienti potenziali. La SEO, ovvero l’ottimizzazione per i motori di ricerca, è un’attività che investe diversi aspetti tecnici, riguardanti la maniera in cui viene realizzato un sito, a livello di codice sorgente e di struttura. Se questi elementi non vengono ottimizzati sin dal principio, potrebbe risultare molto difficile (e costoso) andare a sistemarli una volta che il sito è già stato realizzato. Purtroppo, non tutti quelli che sanno fare siti belli conoscono altrettanto bene ogni aspetto di questa disciplina articolata. Anzi, almeno nel nostro Paese, l’esatto opposto è la regola piuttosto che l’eccezione. Un buon posizionamento sui motori di ricerca è la base per farti trovare da utenti interessati ai tuoi prodotti, e un aspetto essenziale di tutta la strategia dell’inbound marketing. Quando scegli un’agenzia o una persona per farti fare il sito, assicurati quanto meno che abbia un’idea di che cosa sia la SEO.

5. NON SAPERE CON QUALE CMS VERRA’ REALIZZATO IL TUO SITO Prima di tutto: non tutti i CMS sono SEO-friendly, cioè predisposti al posizionamento sui motori di ricerca. Molte agenzie propongono un CMS proprietario, ossia sviluppato da loro, che troppo spesso crea problemi a livello SEO. Alcuni di questi software potrebbero anche risultare poco usabili da parte di chi deve inserire nuovi contenuti, scoraggiandoli a pubblicare con frequenza. Non me ne vogliamo i colleghi che propongono soluzioni di questo genere: esistono anche tanti bravi programmatori in grado di sviluppare CMS proprietari buoni, ma se devo darti un consiglio, scegli un’agenzia o webmaster che sviluppa siti utilizzando WordPress. WordPress è una piattaforma open source, che significa che non necessita di apposite licenze d’uso. Per cui, se per caso non ti trovi bene, potrai cambiare agenzia senza perdere il tuo sito, ti basterà trovarne un’altra che sappia sviluppare con questo CMS.

6. SPENDERE TROPPO POCO

Una delle piaghe che affliggono da sempre il mondo del web marketing, è che ogni piccolo imprenditore ha un amico o un cugino che “smanetta” con il computer. Non penso di dover consumare litri d’inchiostro per convincerti che se ti affidi a un dilettante (o semi-professionista) rischierai di compromettere la tua attività. Il sito è uno strumento di marketing, non un gioco, quindi deve essere fatto da professionisti. Esistono inoltre sul mercato diverse soluzioni “low-cost”, o addirittura gratuite, che consentono di creare siti preconfezionati (anche dall’aspetto gradevole) in breve tempo. Il guaio di questi servizi è che hanno molte limitazioni, ad esempio sul numero di pagine creabili, o sulle funzionalità accessorie che si possono implementare (come ad esempio moduli di iscrizione alla newsletter, pulsanti di condivisione sui social network, moduli di contatto, appositi strumenti per l’ottimizzazione). Sul lato SEO, generalmente questi siti presentano gravi lacune e rendono difficoltoso, o in certi casi addirittura impossibile, ottenere un buon posizionamento sui motori di ricerca.

7. SPENDERE TROPPO

Dal lato opposto dello spettro, ci sono quelli che pensano che per ottenere il massimo della propria strategia online occorre spendere un sacco di soldi nella realizzazione di un sito. Essi si rivolgono ad agenzie blasonate con un costo orario pari a quello di un neurochirurgo di fama mondiale. Ti ricordo che quello che conta per l’inbound marketing, in ultima analisi, è il contenuto, non quanto sia bello o ricco il “contenitore”. Un sito semplicissimo ma pieno di contenuti di qualità e molto più efficace di un sito-brochure fatto dalla più famosa (e cara) agenzia del mondo. Cosa significa esattamente spendere troppo? Proprio come per un’auto, non esiste un prezzo fisso per un sito; non puoi paragonare una Panda con una Porsche. Orientativamente, però, posso dirti che un sito web aziendale, con pagine istituzionali e blog integrato (non e-commerce, quelli sono più cari), dovrebbe costare dai 1000 ai 3000 euro. Ho mantenuto appositamente una forbice di prezzo abbastanza ampia da non offendere nessun collega, mi auguro. Mi riferisco alla sola realizzazione del sito senza servizi accessori (copywriting, foto e video professionali, ottimizzazione per i motori di ricerca). Se ti chiedono di più, non è detto però che ti stiano derubando. I motivi potrebbero essere che hai scelto un’agenzia o un web designer famoso che ha un costo orario molto alto. In questo caso, a meno che tu non abbia un budget stratosferico, ti suggerisco di cambiare agenzia in favore di una meno cara. Ricorda che il tuo obbiettivo è attirare gli utenti e farli diventare clienti, non vincere il premio “sito dell’anno”. Un altro motivo è che sta chiedendo all’agenzia un sacco di cose di cui non hai (per il momento) reale necessità, e questo fa salire il monte ore totale del progetto. Strumenti realizzati ad hoc, come un sistema complesso per calcolare un preventivo online, o una integrazione col tuo gestionale, possono richiedere molte ore di programmazione. Questi sistemi di automazione sono fantastici se hai una marea di visite al sito, ma chiediti se ne hai realmente bisogno adesso. Se hai una piccola impresa, molto probabilmente avrai qualche contatto al giorno, oppure dovrai partire da zero e cominciare ad attirare utenti sul tuo sito. Prima di spendere un sacco di soldi nel realizzare procedure automatiche, preoccupati di far funzionare la tua macchina di inbound marketing. Quando avrai un mucchio di contatti e di nuovi clienti, avrai di conseguenza un budget maggiore per implementare successivamente queste soluzioni. Infine, non dimenticare che il sito non è che l’inizio del tuo cammino nell’inbound marketing, successivamente dovrai investire in promozione. Se spendi tutto il tuo budget per realizzare un sito non ti resterà un soldo per le attività promozionali, come un eventuale servizio SEO, le campagne Google AdWords o Facebook Ads. Ti suggerisco perciò di seguire la regola dell’80/20: quando cominci una strategia online devi spendere al massimo il 20% del tuo budget (ancora meglio se il 10%) nella realizzazione del sito, il restante 80% nella promozione.

8. DARE IMPORTANZA ECCESSIVA ALLA GRAFICA

Ricollegandomi al punto precedente, ti dico che una delle cause di spreco di denaro e di tempi di realizzazione potrebbe essere la fissazione eccessiva per gli aspetti legati alla grafica. Non lo ripeterò mai abbastanza: il sito è uno strumento di marketing, non un quadro da appendere in salotto o una casa da arredare, e vincere il premio per il sito più bello dell’anno non ti aiuterà a vendere di più. L’altra ragione per non essere maniacale con la grafica è che il mondo del web ha una obsolescenza altissima. L’arredamento del tuo ufficio potrebbe sembrare vecchio tra dieci anni, la tua nuova camicia fashion tra un paio di stagioni, ma il tuo sito potrebbe essere “antico” già tra nove mesi. Sul web tutto corre veloce, e un anno-Internet equivale pressappoco a 10 anni nel mondo reale. Hai appena rifatto il tuo sito§? Probabilmente sarai felice per i prossimi sei mesi, se sei fortunato un anno… ma dopo? Lo guarderai e ti apparirà quasi obsoleto, magari il tuo concorrente ha fatto un restyling da poco e ti sembrerà che il suo sia molto più moderno. Per evitare di cadere in questo circolo vizioso, ti consiglio di scegliere una bella grafica, ma non esagerare con l’essere perfezionista. Prova anche a non ricercare a tutti i costi l’abbondanza. Spesso il segreto di un sito di successo sta proprio in una grafica minimalista. Ricordo che una volta un cliente, quando gli mostrai la home page del sito che gli avevo appena realizzato, disse amareggiato: “Ma ho speso tutti questi soldi per una pagina bianca?”. L’obbiettivo non è stupire gli utenti con mirabolanti effetti speciali. Ti ricordo ancora una volta che la maggior parte degli utenti sarà interessata ai contenuti del tuo sito, al valore che gli puoi offrire. Non mi credi? Dai un’occhiata alla home page di Google, il sito più visitato al mondo.

9. TRASCURARE I CONTENUTI

Mi è capitato spesso il caso del cliente che non vuole saperne di investire qualche ora per raccogliere, riscrivere, recuperare tutto il materiale relativo alla sua azienda, ma è impaziente di vedere il suo nuovo sito online. Chiamano e mandano mail tutti i giorni: “Allora, quando ci fai vedere qualcosa?”. Il punto qui è che un sito non è altro che un contenitore di testo e immagini, impaginato in una certa maniera, con determinati colori e un logo. Quello che molti non capiscono è che non è possibile delegare completamente il lavoro all’agenzia o al webmaster. Realizzare un sito è sempre un’azione collaborativa tra il webmaster e il committente, dove il committente raccoglie tutto il materiale dell’azienda, lo consegna al webmaster il quale gli dà una veste grafica e lo organizza in una certa maniera. Immagina che il tuo sito sia un libro, tu sei l’autore, il webmaster è l’editore, il copywriter è l’editor (la persona che si occupa di verificare e correggere i testi). Il webmaster può decidere la copertina (home page), il tipo e la dimensione del carattere da utilizzare, la spaziatura, ecc. Ma i testi li scrivi tu. Sei tu l’unico che conosce ogni aspetto dell’azienda e dei prodotti. Se non prendi qualche giorno di tempo per raccogliere, rielaborare, riscrivere i tuoi contenuti, il sito non sarà mai niente di più che una brochure online. Se vendi un prodotto “visivo” – come arredi, abbigliamento, food – assicurati di avere foto professionali. Ti assicuro, la bellezza di un sito dipende per l’80% dalle foto e per il restante da tutto il resto, perciò se hai un prodotto visivo, ti consiglio di spendere un po’ di meno per realizzare il sito e ingaggiare un fotografo professionista. Se questo supera il tuo budget, esistono diversi database fotografici online che vendono foto in stock a prezzi molto bassi (meno di un euro a foto). Tra i più noti troviamo Fotolia e Shutterstock. Le foto in vendita su questi siti sono professionali, anche se utilizzandole rischi un effetto di spersonalizzazione del sito; sempre meglio che avere foto amatoriali che terrorizzano gli utenti.

10. AVERE CONTENUTI DISORGANIZZATI

Un problema ricorrente è quello della scarsa usabilità di un sito, data da una cattiva organizzazione dei contenuti. Questo errore non solo renderà difficoltosa la navigazione degli utenti, ma può causare problemi anche per il tuo posizionamento sui motori di ricerca. Una buona struttura del sito è ad albero (o a piramide). Idealmente, ogni pagina del tuo sito dovrà essere raggiungibile a partire dalla home page in un massimo di tre link. L’architettura è un’altra cosa che non andrebbe lasciata completamente nelle mani del webmaster. Solo tu puoi sapere come organizzare al meglio i tuoi contenuti e a quali vuoi dare più risalto.

11. FARE UN SITO NON ORIENTATO ALLA CONVERSIONE Essere trovati è la base della metodologia inbound, ma è solo la prima fase e non è sufficiente. Approdato sul sito, l’utente deciderà se richiederti un’offerta o meno. Ogni strategia di marketing online ha come obbiettivo la conversione. In estrema sintesi è possibile definire la conversione come la trasformazione di un visitatore in contatto (potenziale cliente). Il luogo dove avvengono le conversioni è il nostro sito: se esso non è orientato a convertire, rischiamo di sprecare tutto il lavoro fatto e il denaro speso per portare la gente a visitarlo.

12. NON AVERE UN SITO OTTIMIZZATO PER IL MOBILE

Grazie all’enorme diffusione di smartphone e tablet, sempre più utenti vedranno il tuo sito con un dispositivo mobile. Viaggio spesso in treno: puoi immaginare la mia frustrazione quando non riesco ad acquistare un biglietto perché il sito di una nota azienda di trasporti ferroviari (non quella nuova, l’altra) non è navigabile dal mio smartphone. Per non perdere clienti, prendi in seria considerazione l’ipotesi di far realizzare una versione mobile del tuo sito, o un sito che si adatta graficamente al dispositivo con cui viene visualizzato (sito “responsive”).

Sbatti il politico in copertina

di Marco Mazzoni*

Vanity FairI politici sono sulle prime pagine dei principali settimanali di gossip, dei rotocalchi e delle riviste di attualità e costume con la stessa frequenza delle celebrità del mondo dello spettacolo. Le riviste patinate sono oggi uno degli strumenti preferenziali attraverso cui informazioni e pettegolezzi (pseudo)privati riguardanti la vita dei politici arrivano a un pubblico che molto spesso è lontano dalla politica, o, comunque, poco avvezzo a seguire l’evolversi del dibattito pubblico. Crozza-Berlusconi lo disse: “Tutti che mi criticano, il Wall Street Journal, il Financial Times, ma chi li legge? Sono in inglese! Quante copie vende Chi e quante il Financial Times? Coglioni!” (da Ballarò del 5 febbraio 2013).

Le riviste di costume, attualità e gossip hanno acquisito una rilevanza considerevole nel panorama politico italiano, a maggior ragione durante i periodi di campagna elettorale, una fase di confronto-scontro politico fisiologicamente caratterizzata da toni gridati e attacchi personali. La sempre maggiore attenzione che la stampa patinata riserva ai politici del nostro paese determina importanti effetti, politicamente significativi, anche sul tipo di lettori che si avvicina a questi strumenti “non convenzionali” di comunicazione politica. È una nuova forma di “going public”, sebbene acquisisca tonalità e sfumature cangianti a seconda di chi sono le personalità politiche in questione, che per i leader politici rappresenta una preziosa opportunità per instaurare un canale comunicativo con una fascia di cittadini (ed elettori) difficilmente raggiungibili attraverso l’utilizzo dei mezzi di comunicazione politica convenzionale.

Di fatto, viviamo nell’era della politica pop. Nel 2009 Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini pubblicano un volume dal titolo: “Politica pop. Da Porta a Porta a L’isola dei famosi”. Il testo in questione mostra come anche in Italia, alla pari di altri paesi occidentali, i linguaggi della politica e i codici dell’intrattenimento vadano progressivamente accavallandosi, arrivando, in alcune circostanze, addirittura a sovrapporsi. In particolare, nell’era che stiamo vivendo, il politico moderno gioca un doppio ruolo. Per rafforzare il suo consenso è chiamato a gestire e a promuovere non solo la sua immagine pubblica, ma anche quella privata. Più esattamente, far circolare informazioni sul suo privato oppure evitare che circolino informazioni del suo privato che potrebbero danneggiarne la reputazione diventa un’azione importante tanto quanto lanciare la propria proposta politica, in quanto permette al leader politico di (ri)avvicinarsi alla gente comune.
Quando parliamo di politica pop, infatti, ci riferiamo a una politica (più) popolare, a una politica per tutti e quindi più comprensibile, più “vicina” alla gente: i leader si fanno più “umani”, hanno una vita come tanti e assomigliano all’uomo della strada. L’intreccio tra dimensione pubblica e privata è la vera novità, che mostra come l’intrattenimento (in particolare quello prodotto dalle riviste di attualità e gossip) non sia più soltanto il luogo del divertimento, ma anche quello in cui il politico promuove se stesso e la sua vita.

Oggi i media rappresentano il canale privilegiato all’interno del quale le diatribe e i dibattiti politici circolano ed entrano nelle case delle persone. A tal riguardo, Altheide e Snow, due sociologi americani, parlarono già nel 1979 di commistione tra media logic e political logic: al fine di adattarsi alla crescente centralità detenuta nelle società moderne dai mezzi di comunicazione di massa, la politica riadatta i propri linguaggi, i propri codici, e spesso, i propri tempi. Nell’era della politica pop, quotidiani come il Corriere della Sera e trasmissioni televisive come Porta a porta, a lungo identificata addirittura come “la Terza Camera”, rappresentano sempre delle arene ideali in cui il leader può narrare al grande pubblico la sua visione politica, spiegare agli elettori il Paese che ha in mente, e snocciolare la proposta programmatica che sottende a tale visione. Tuttavia, molto raramente in questi format il politico racconta se stesso. Ed è difficile che possa farlo.
Per tale ragione, se i politici individuano nel principale giornale italiano e nel salotto di Bruno Vespa un’arena preferenziale per discutere di alleanze e scenari politici, al tempo stesso, trovano nei settimanali di attualità e di gossip l’ambiente ideale per svelare a un pubblico politicamente non convenzionale particolari legati alla loro vita umana piuttosto che politica. E questa rappresenta un’importante evoluzione del processo di assimilazione dei canoni della media logic. Non solo la politica fa propri i codici della comunicazione di massa, ma è anche in grado di adattarsi, con modalità tuttavia variabili da caso a caso, ad ambienti mediali anche profondamente diversi tra loro, funzionanti secondo logiche e regole opposte.

Francesco Alberoni ha sottolineato come per molto tempo gli italiani, a differenza degli anglosassoni, abbiano tenuto la vita politica separata dalla vita privata. Il pettegolezzo sulle storie d’amore, i figli, la famiglia riguardava i divi dello spettacolo, non i politici. Non che il leader di partito nell’epoca dei partiti di massa non avesse una forte personalità; di fatto, aveva, se pensiamo a De Gasperi, Togliatti, Nenni solo per fare alcuni nomi, una forte personalità carismatica, ma la loro fisicità e la loro vita personale non erano oggetto di particolare interesse pubblico. In quel periodo, gli italiani che affollano le piazze non sono affascinati dall’uomo, ma dal politico. Nessuno conosceva il nome della moglie di questo o quel politico e poco interessava, nemmeno alle testate giornalistiche, se era divorziato o avesse amanti: eravamo nell’Italia dominata dalla Democrazia Cristiana, in cui probabilmente la gente dava anche per assodato che il politico fosse sposato. Famosa per l’eccezionalità fu la serie di fotografie di De Gasperi assieme alla sua famiglia nella casa di montagna nelle Dolomiti; mentre per gli altri personaggi della politica non era nemmeno possibile parlare di eccezioni, rispetto ad una riservatezza totale. Il politico insomma andava valutato soprattutto per le sue qualità politiche e per le sue capacità di governo, e, comunque, non sicuramente per i suoi amori o per la sua vita familiare. Non a caso, l’unico tradimento riconosciuto, in grado anche di richiamare l’attenzione del giornalista, era il “tradimento politico”: voltare le spalle alle decisioni prese dal proprio partito di appartenenza, soprattutto nel segreto dell’urna durante un voto importante in assemblea parlamentare, era il vero scandalo. E si provava un grande stupore quando dall’altra parte dell’oceano giungevano notizie di politici costretti a rinunciare a correre per una carica politica perché divorziati o per aver tradito il proprio partner.

In Italia il pettegolezzo amoroso come arma politica è sempre stata un’eccezione, almeno fino a quando non arriva Silvio Berlusconi. Con lui il gossip diventa rilevante dal punto di vista politico. Molto, sicuramente, dipende dalla marcata propensione allo scandalo che caratterizza il personaggio politico, dalle telenovele estive con Noemi e D’Addario e dalla decisione (molto mediatica) di Veronica Lario di separarsi da lui. Ma c’è di più. Berlusconi, infatti, è stato uno dei primi politici ad aver capito che il leader (post)moderno promuove la sua immagine pubblica anche aprendo agli occhi esterni la sua dimensione privata. I suoi eccessi uniti anche ai suoi successi non hanno soltanto provocato una desacralizzazione della politica, ma gli hanno anche permesso la diffusione di un particolare modello di vita. Un comportamento questo paragonabile a quello delle celebrità, sempre attente a promuovere e rendere visibile il loro modello di vita, e che soprattutto sembra essere accettato dalla gente comune, come si può dedurre da quegli studi in cui è stato mostrato che votando per Berlusconi gli italiani hanno scelto cosa Berlusconi stava proponendo come modello di vita quotidiana.

In altre parole, la proposta, corroborata da ricerche che sto portando avanti insieme al collega Antonio Ciaglia (University of the Witwatersrand, Johannesburg), è che anche in Italia il politico va considerato come una celebrità. Un volume di Mark Wheeler del 2013, dal titolo emblematico, “Celebrity Politics”, mostra come lo status di celebrità coinvolga tutti i principali leader politici, per il semplice fatto che i leader politici tendono sempre più a comportarsi come le star del mondo dello spettacolo. A volte sono gli stessi politici a contattare i paparazzi per essere fotografati in alcuni momenti della loro vita mondana. E il motivo dovrebbe essere abbastanza chiaro: i politici utilizzano la celebrità alla stregua di un’”arma politica” con l’obiettivo di rafforzare in primo luogo la loro visibilità e successivamente il loro consenso. La letteratura internazionale conferma quanto appena detto citando i casi di Ronald Reagan, Bill Clinton, Barack Obama e Tony Blair. Le nostre ricerche ci dicono che si può aggiungere a questo elenco, dando uno sguardo a ciò che sta succedendo nel nostro paese, anche i principali leader politici italiani. E di esempi se possono fare tanti. Guardando all’ultimo periodo, non si può tralasciare come si sia costruito la visibilità l’attuale presidente del Consiglio. Matteo Renzi ha partecipato alla “Partita del Cuore”, al programma televisivo di Amici (vestito come Fonzie) e ha deciso di rilasciare frequenti interviste a Chi e a Vanity Fair; l’obiettivo è apparso piuttosto chiaro: rafforzando la sua notorietà tra la gente sarebbe stata più agevole la sua scalata alla segreteria del Pd e poi alla presidenza del Consiglio.

Dietro tali cambiamenti, va riconosciuto il ruolo cruciale giocato proprio dai mass media, che hanno determinato il passaggio, ben descritto dal politologo francese Bernard Manin, dalla tradizionale “democrazia dei partiti” alla “democrazia del pubblico”. La “democrazia del pubblico” si contraddistingue per il progressivo allentamento dei legami subculturali e di rappresentanza degli interessi tra partiti ed elettori, tra governo e cittadini. La politica mediatizzata marca una nuova fase della vita democratica, una fase caratterizzata da una relazione diretta, ancorché mediata, tra leadership e cittadini, creando anche una nuova idea di interazione politica, un nuovo modo di fare politica, in cui agire politico ed agire comunicativo mediato non sono più distinguibili. Potremmo dire che nella “democrazia del pubblico” è la già citata “logica dei media” che ispira e governa il funzionamento tanto del mondo dello spettacolo quanto di quello della politica. Pertanto, in questo contesto, “pubblico” non si riferisce a ciò che interessa tutti, né all’arena idealtipica in cui vengono discussi argomenti che sono di rilievo generale. Bensì, evoca il cittadino-spettatore di fronte alla messa in scena della politica-spettacolo. Di fatto, però manca ancora un elemento che va evidenziato. Ed è qui che si focalizza maggiormente la mia “curiosità” di studioso.

Oggi democrazia del pubblico si sta sempre più traducendo, come notato anche da Ilvo Diamanti, in “democrazia del privato”. Dove i fatti personali e familiari diventano di pubblico interesse e non perché siano di interesse pubblico, ma perché interessano al pubblico. Ecco perché la politica pop non è soltanto un costrutto teorico o un paradigma interpretativo di una buona parte delle forme contemporanee di comunicazione politica ed elettorale, ma è un fenomeno con ampi riscontri fattuali, anche in un paese, come l’Italia, storicamente refrattario all’assorbimento indiscriminato e repentino di fenomeni sociali (e comunicativi) provenienti da Oltreoceano. In conclusione, il politico è una celebrità, perché la sua vita privata attira la curiosità delle persone come quella di una star del mondo dello spettacolo o dello sport; e come avviene per tutte le celebrità, inevitabilmente nella vita del politico si va sfaldando, come già Erving Goffman aveva previsto, ogni forma di distinzione fra dimensione pubblica (scena) e dimensione privata (retroscena). Al punto da divenire un politico “da copertina”.

*Marco Mazzoni (Università di Perugia) è uno dei coordinatori didattici del Centro

Notizie da Gramsci

cronache_torinesiAntonio Gramsci fu anche un grande giornalista. Prima del carcere tenne una rubrica sull’Avanti intitolata “Sotto la mole” e una regolare rubrica teatrale. Quegli scritti, che sono un esempio di scrittura e di brevità – e che Gramsci, come ogni buon giornalista, avrebbe voluto destinare al cestino dopo la pubblicazione -, sono stati raccolti da Einaudi nelle “Cronache torinesi” (con, in appendice, le cronache teatrali). I temi del giornalismo trovarono spazio anche negli anni della persecuzione fascista. Nei Quaderni del carcere, scritti tra il 1929 e il 1935, Gramsci se ne occupò più volte. Le questioni o, come le chiamava Gramsci, le “quistioni” risentono ovviamente delle generali condizioni in cui versava l’editoria dell’epoca (condizioni anche liberticide e drammatiche, con la censura) e, spesso, si tingono di ideologia e di pedagogia politica. Ma non sono affatto “datate”, conservano anzi una sorprendente attualità.

Gramsci, per esempio, demitizza la “praticaccia” e insiste sulla necessità di insegnare il “mestiere” nelle scuole di giornalismo, anche istituendole nelle stesse redazioni e aprendole a quella che allora, come oggi, veniva denominata “società civile”. Gramsci fissa anche il principio della competenza: un capocronista, dice, dovrebbe essere in grado di amministrare una città, come un corrispondente dall’estero, a differenza dell’inviato o (come lo chiama Gramsci) del “corrispondente viaggiante”, dovrebbe conoscere il paese che lo ospita al punto da poterne scriverne subito un libro.

gramsci300Gramsci entra persino nei dettagli tecnici: detesta i titoli del tipo “brevi cenni sull’universo” e spinge per l’introduzione della divulgazione scientifica nei giornali. I brani che seguono sono tratti dai “Quaderni del carcere” nell’edizione critica dell’Istituto Gramsci pubblicata in quattro volumi da Einaudi.

di Antonio Gramsci

Scuole di giornalismo

Nella Nuova Antologia del 1° luglio 1928 è pubblicato, con questo titolo, un articolo di Ermanno Amicucci, che forse in seguito è stato pubblicato in volume con altri. L’articolo è interessante per le informazioni e gli spunti che offre. E’ da rilevare tuttavia che in Italia la quistione è molto più complessa da risolvere di quanto non paia leggendo questo articolo ed è da credere che i risultati delle iniziative scolastiche non possano essere molto grandi (almeno per ciò che riguarda il giornalismo tecnicamente inteso: le scuole di giornalismo saranno scuole di propaganda politica generale). Il principio, però, che il giornalismo debba essere insegnato e che non sia razionale lasciare che il giornalista si formi da sé, casualmente, attraverso la “praticaccia”, è vitale e si andrà sempre più imponendo, a mano a mano che il giornalismo, anche in Italia, diventerà un’industria più complessa e un organismo civile più responsabile. La quistione, in Italia, trova i suoi limiti nel fatto che non esistono grandi concentrazioni giornalistiche, per il decentramento della vita culturale nazionale, che i giornali sono molto pochi e la massa dei lettori è scarsa. Il personale giornalistico è molto limitato e quindi si alimenta attraverso le sue stesse gradazioni d’importanza: i giornali meno importanti (e i settimanali) servono da scuola per i giornali più importanti e reciprocamente. Un redattore di secondo ordine del Corriere diventa direttore o redattore capo di un giornale di provincia e un redattore rivelatosi di primo ordine in un giornale di provincia o in un settimanale, viene assorbito da un grande giornale ecc. Non esistono in Italia centri come Parigi, Londra, Berlino, ecc., che contano migliaia di giornalisti, costituenti una vera categoria professionale diffusa, economicamente importante; inoltre le retribuzioni in Italia, come media, sono molto basse. In alcuni paesi, come quelli tedeschi, il numero dei giornali che si pubblicano in tutto il paese è imponente, e alla concentrazione di Berlino corrisponde una vasta stratificazione in provincia.
Quistione dei corrispondenti locali, che raramente (solo per le grandi città e in generale per quelle dove si pubblicano settimanali importanti) possono essere giornalisti di professione.
Per certi tipi di giornale il problema della scuola professionale deve essere risolto nell’ambito della stessa redazione, trasformando o integrando le riunioni periodiche redazionali in scuole organiche di giornalismo, ad assistere alle cui lezioni dovrebbero essere invitati anche elementi estranei dalla redazione in senso stretto: giovani e studenti, fino ad assumere il carattere di vere scuole politico-giornalisti-che, con lezioni di argomenti generali (di storia, di economia, di diritto costituzionale, ecc.) affidate anche a estranei competenti e che sappiano investirsi dei bisogni del giornale.
Si dovrebbe partire dal principio che ogni redattore o reporter dovrebbe essere messo in grado di compilare e dirigere tutte le parti del giornale, così come, subito, ogni redattore dovrebbe acquistare le qualità di reporter, cioè dare tutta la sua attività al giornale, ecc.
A proposito del numero dei giornalisti italiani, l’Italia Letteraria del 24 agosto 1930 riferisce i dati di un censimento eseguito dalla Segreteria del Sindacato Nazionale dei giornalisti: al 30 giugno erano inscritti 1960 giornalisti dei quali 800 affiliati al Partito Fascista, così ripartiti: Sindacato di Bari, 30 e 26, Bologna 108 e 40, Firenze 108 e 43, Genova 113 e 39, Milano 348 e 143, Napoli 106 e 45, Palermo 50 e 17, Roma 716 e 259, Torino 144 e 59, Trieste 90 e 62, Venezia 147 e 59.

Capocronista e capocronaca

Difficoltà di creare dei buoni capi cronisti, cioè dei giornalisti tecnicamente preparati a comprendere ed analizzare la vita organica di una grande città, impostando in questo quadro (senza pedanteria, ma anche non superficialmente e senza “brillanti” improvvisazioni) ogni singolo problema mano mano che diventa attualità. Ciò che si dice del capocronista può estendersi a tutta una serie d’attività pubbliche: un buon capocronista dovrebbe avere la preparazione tecnica sufficiente e necessaria per diventare podestà o anche prefetto, o presidente (effettivo) di un Consiglio provinciale d’economia tipo attuale; e, dal punto di vista giornalistico, dovrebbe corrispondere al corrispondente locale di una grande città (e via via, in ordine di competenza e di ampiezza decrescente dei problemi, delle medie, piccole città e dei villaggi).
In generale, le funzioni di un giornale dovrebbero essere equiparate a corrispondenti funzioni dirigenti della vita amministrativa e da questo punto di vista dovrebbero essere impostate le scuole di giornalismo, se si vuole che tale professione esca dallo stadio primitivo e dilettantesco in cui oggi si trova, diventi qualificata e abbia una compiuta indipendenza, cioè il giornale sia in grado di offrire al pubblico informazioni e giudizi non legati a interessi particolari. Se un capocronista informa il pubblico “giornalisticamente”, come si dice, ciò significa che il capocronista accetta senza critica e senza giudizio indipendente informazioni e giudizi, attraverso interviste e tuyaux, di persone che intendono servirsi del giornale per promuovere determinati interessi particolari.
Dovrebbero esistere due tipi di capocronaca: 1) il tipo organico e 2) il tipo di più spiccata attualità. Col tipo organico, per dare un punto di vista comprensivo, dovrebbe essere possibile compilare dei volumi sugli aspetti più generali e costanti della vita di una città, dopo aver depurato gli articoli di quegli elementi d’attualità che devono esistere sempre in ogni pubblicazione giornalistica; ma per intendersi, in questi articoli “organici” l’elemento di attualità deve essere subordinato e non principale. Questi articoli organici perciò non devono essere molto frequenti. Il capocronista studia l’organismo urbano nel suo complesso e nella sua generalità, per avere la sua qualifica professionale (solo limitatamente, un capocronista può cambiare di città: la sua superiore qualifica non può non essere legata a una determinata città): i risultati originali, o utili in generale, di questo studio organico, è giusto che non siano completamente disinteressati, che non siano solo premessa, ma si manifestino anche immediatamente, cogliendo uno spunto di attualità. La verità è che il lavoro di un capocronista è altrettanto vasto di quello di un redattore capo, o di un caposervizio in una organizzazione giornalistica con divisione del lavoro organica. In una scuola di giornalismo occorrerebbe avere una serie di monografie su grandi città e sulla loro vita complessa. Il solo problema dell’approvvigionamento di una grande città è tale da assorbire molto lavoro e molta attività.

Corrispondenti dall’estero

Non si può fare a meno di collaboratori stranieri, ma anche la collaborazione straniera deve essere organica e non antologica e sporadica o casuale. Perché sia organica è necessario che i collaboratori stranieri, oltre a conoscere le correnti culturali del loro paese siano capaci di “confrontarle” con quelle del paese in cui la rivista è pubblicata, cioè conoscano le correnti culturali anche di questo e ne comprendano il “linguaggio” nazionale. La rivista pertanto (ossia il direttore della rivista) deve formare anche i suoi collaboratori stranieri per raggiungere l’organicità.
Nel Risorgimento ciò avvenne molto di rado e perciò la cultura italiana continuò a rimanere alquanto provinciale. Del resto una organicità di collaborazione internazionale si ebbe forse solo in Francia, perché la cultura francese, già prima dell’epoca liberale, aveva esercitato un’egemonia europea; erano quindi relativamente (numerosi) gli intellettuali tedeschi, inglesi, ecc. che sapevano informare sulla cultura del loro paese impiegando un “linguaggio” francese. Infatti non bastava che l’Antologia del Vieusseux pubblicasse articoli di “liberali” francesi o tedeschi o inglesi perché tali articoli potessero informare utilmente i liberali italiani, perché tali informazioni cioè potessero suscitare o rafforzare correnti ideologiche italiane: il pensiero rimaneva generico, astratto, cosmopolita. Sarebbe stato necessario suscitare collaboratori specializzati nella conoscenza dell’Italia, delle sue correnti intellettuali, dei suoi problemi, cioè collaboratori capaci di informare nello stesso tempo la Francia sull’Italia.
quaderni_dal_carcereTale tipo di collaboratore non esiste “spontaneamente”, deve essere suscitato e coltivato. A questo modo razionale di intendere la collaborazione si oppone la superstizione di avere tra i propri collaboratori esteri i capiscuola, i grandi teorici, ecc. Non si nega l’utilità (specialmente commerciale) di avere grandi firme. Ma dal punto di vista pratico di promuovere la cultura, è più importante il tipo di collaboratore affiatato con la rivista, che sa tradurre un mondo culturale nel linguaggio di un altro mondo culturale, perché sa trovare le somiglianze anche dove esse pare non esistano e sa trovare le differenze anche dove pare ci siano solo somiglianze ecc.
Il tipo del “corrispondente dall’estero” di un quotidiano è qualcosa di diverso, tuttavia alcune osservazioni dell’altra nota sono valide anche per questa attività. Intanto non bisogna concepire il corrispondente dall’estero come un puro reporter o trasmettitore di notizie del giorno per telegramma o per telefono, cioè una integrazione delle agenzie telegrafiche. Il tipo moderno più compiuto di corrispondente dall’estero è il pubblicista di partito, il critico politico che osserva e commenta le correnti politiche più vitali di un paese straniero e tende a diventare uno “specialista” sulle quistioni di quel dato paese (i grandi giornali perciò hanno “uffici di corrispondenza” nei diversi paesi, e il capo ufficio è lo “scrittore politico”, il direttore dell’ufficio). Il corrispondente dovrebbe mettersi in grado di scrivere, entro un tempo determinato, un libro sul paese dove è mandato per risiedervi permanentemente, un’opera completa su tutti gli aspetti vitali della sua vita nazionale ed internazionale. (Altro è il corrispondente viaggiante che va in un paese per informare su grandi avvenimenti immediati che vi si svolgono).
Criteri per la preparazione e la formazione di un corrispondente: 1) Giudicare gli avvenimenti nel quadro storico del paese stesso e non solo con riferimento al suo paese d’origine. Ciò significa che la posizione di un paese deve essere misurata dai progressi o regressi verificatisi in quel paese stesso e non può essere meccanicamente paragonata alla posizione di altri paesi nello stesso momento. Il paragone tra Stato e Stato ha importanza, perché misura la posizione relativa di ognuno di essi: infatti un paese può progredire, ma se in altri il progresso è stato maggiore o minore, la posizione relativa muta, e muta la influenza internazionale del paese dato. Se giudichiamo l’Inghilterra da ciò che essa era prima della guerra, e non da ciò che essa è oggi in confronto della Germania, il giudizio muta, sebbene anche il giudizio di paragone abbia grande importanza. 2) I partiti in ogni paese hanno un carattere nazionale, oltre che internazionale: il liberalismo inglese non è uguale a quello francese o a quello tedesco, sebbene ci sia molto in comune ecc. 3) Le giovani generazioni sono in lotta con le vecchie nella misura normale in cui i giovani sono in lotta coi vecchi, oppure i vecchi hanno un monopolio culturale divenuto artificiale o dannoso? I partiti rispondono ai problemi nuovi o sono superati e c’è crisi? ecc.
Ma l’errore più grande e più comune è quello di non saper uscire dal proprio guscio culturale e misurare l’estero con un metro che non gli è proprio: (non) vedere la differenza sotto (le) apparenze uguali e non vedere l’identità sotto le diverse apparenze.

I titoli

Tendenza a titoli magniloquenti e pedanteschi, con opposta reazione di titoli così detti “giornalistici” cioè anodini e insignificanti. Difficoltà dell’arte dei titoli che dovrebbero riassumere alcune esigenze: di indicare sinteticamente l’argomento centrale trattato, di destare interesse e curiosità spingendo a leggere. Anche i titoli sono determinati dal pubblico al quale il giornale si rivolge e dall’atteggiamento del giornale verso il suo pubblico: atteggiamento demagogico-commerciale quando si vuole sfruttare le tendenze più basse; atteggiamento educativo-didattico, ma senza pedanteria, quando si vuole sfruttare il sentimento predominante nel pubblico, come base di partenza per un suo elevamento. Il titolo “Brevi cenni sull’universo”, come caricatura del titolo pedantesco e pretenzioso.

La cronaca giudiziaria

Si può osservare che la cronaca giudiziaria dei grandi giornali è redatta come un perpetuo “Mille e una notte” concepito secondo gli schemi del romanzo d’appendice. C’è la stessa varietà di schemi sentimentali e di motivi: la tragedia, il dramma frenetico, l’intrigo abile e intelligente, la farsa. Il Corriere della Sera non pubblica romanzi d’appendice: ma la sua pagina giudiziaria ne ha tutte le attrattive, con in più la nozione, sempre presente, che si tratta di fatti veri.

Rubriche scientifiche

Il tipo italiano del giornale quotidiano è determinato dall’insieme delle condizioni organizzative della vita culturale del paese: mancanza di una vasta letteratura di divulgazione, sia attraverso il libro che la rivista. Il lettore del giornale vuole perciò trovare nel suo foglio un riflesso di tutti gli aspetti della complessa vita sociale di una nazione moderna. E‘ da rilevare il fatto che il giornale italiano, relativamente meglio fatto e più serio che in altri paesi, abbia nel paese trascurato l’informazione scientifica, mentre esisteva un corpo notevole di giornalisti specializzati per la letteratura economica, letteraria ed artistica. Anche nelle riviste più importanti (come la Nuova Antologia e la Rivista d’Italia) la parte dedicata alle scienze era quasi nulla (oggi le condizioni sono mutate da questo punto di vista e il Corriere della Sera ha una serie di collaboratori, specializzati nelle quistioni scientifiche, molto notevole). Sono sempre esistite riviste scientifiche di specialisti, ma mancavano le riviste di divulgazione (è da vedere l’Arduo che usciva a Bologna diretto da S. Timpanaro; molto diffusa la “Scienza per tutti” della Casa Sonzogno, ma per un giudizio di essa basta ricordare che fu diretta per molti anni da… Massimo Rocca).
L’informazione scientifica dovrebbe essere integrante di qualsiasi giornale italiano, sia come notiziario scientifico-tecnologico, sia come esposizione critica delle ipotesi e opinioni scientifiche più importanti (la parte igienico-sanitaria dovrebbe costituire una rubrica a sé). Un giornale popolare, più degli altri, dovrebbe avere questa sezione scientifica, per controllare e dirigere la cultura dei suoi lettori, che spesso è “stregonesca” o fantastica e per “sprovincializzare” le nozioni correnti.
Difficoltà di avere specialisti che sappiano scrivere popolarmente: si potrebbe fare lo spoglio sistematico delle riviste generali e speciali di cultura professionale, degli atti delle Accademie, delle pubblicazioni straniere e compilare estratti e riassunti in appendici speciali, scegliendo accuratamente e con intelligenza delle esigenza culturali del popolo, gli argomenti e il materiale.

Almanacchi

Poiché il giornalismo è stato considerato, nelle note ad esso dedicate, come esposizione di un gruppo che vuole, attraverso diverse attività pubblicistiche, diffondere una concezione integrale del mondo, si può prescindere dalla pubblicazione di un almanacco? L’almanacco è, in fondo, una pubblicazione periodica annuale, in cui, anno per anno, si esamina l’attività storica complessa di un anno da un certo punto di vista. L’almanacco è il “minimo” di “pubblicità” periodica che si può dare alle proprie idee e ai propri giudizi sul mondo e la sua varietà mostra quanto nel gruppo si sia venuto specializzando ogni singolo momento di tale storia, così come la organicità mostra la misura di omogeneità che il gruppo è venuto acquistando. Certo, per la diffusione, occorre che l’almanacco tenga conto di determinati bisogni del gruppo di compratori cui si rivolge, gruppo che non può, spesso, spendere due volte, per uno stesso bisogno. Occorrerà pertanto scegliere il contenuto: 1) quelle parti che rendono inutile l’acquisto di altro almanacco; 2) quella parte per cui si vuole influire sui lettori per indirizzarli secondo un senso prestabilito. La prima parte sarà ridotta al minimo: a quanto basta per soddisfare il bisogno dato. La seconda parte insisterà su quegli argomenti che si ritengono di maggior peso educativo e formativo.

Napoleone III

Ciò che Napoleone III disse del giornalismo durante la sua prigionia in Germania al giornalista inglese Mels-Cohn (cfr Paul Guériot, La captivité de Napoléon III en Allemagne, pp.250, Parigi, Perrin). Napoleone avrebbe voluto fare del giornale ufficiale un foglio modello, da mandare gratuitamente a ogni elettore, con la collaborazione delle penne più illustri del tempo e con le informazioni più sicure e più controllate da ogni parte del mondo. La polemica, esclusa, sarebbe rimasta confinata nei giornali particolari ecc.
La concezione del giornale di Stato è logicamente legata alle strutture governative illiberali (cioè a quelle in cui la società civile si confonde con la società politica), siano esse dispotiche o democratiche (ossia in quelle in cui la minoranza oligarchica pretende essere tutta la società, o in quelle in cui il popolo indistinto pretende e crede di essere veramente lo Stato). Se la scuola è di Stato, perché non sarà di Stato anche il giornalismo, che è la scuola degli adulti?
Napoleone argomentava partendo dal concetto che se è vero l’assioma giuridico che l’ignoranza delle leggi non è scusa per l’imputabilità, lo Stato deve gratuitamente tenere informati i cittadini di tutta la sua attività, deve cioè educarli: argomento democratico che si trasforma in giustificazione dell’attività oligarchica. L’argomento però non è senza pregio: esso può essere “democratico” solo nelle società in cui la unità storica di società civile e società politica è intesa dialetticamente (nella dialettica reale e non solo concettuale) e lo Stato è concepito come superabile dalla “società regolata”: in questa società il partito dominante non si confonde organicamente col governo, ma è strumento per il passaggio dalla società civile-politica alla “società regolata”, in quanto assorbe in sé ambedue, per superarle (non per perpetuarne la contraddizione), ecc.
A proposito del regime giornalistico sotto Napoleone III, ricordare l’episodio del prefetto di polizia che ammonisce un giornale perché in un articolo sui concimi non era fissato risolutamente quale concime era il migliore: ciò, secondo il prefetto, contribuiva a lasciare nella incertezza il pubblico ed era perciò biasimevole e degno di richiamo da parte della polizia.

Movimenti e centri intellettuali

E’ dovere dell’attività giornalistica (nelle sue varie manifestazioni) seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese. Tutti. Cioè con l’esclusione appena di quelli che hanno un carattere arbitrario e pazzesco; sebbene anche questi, col tono che si meritano, devono essere per lo meno registrati. Distinzione tra centri e movimenti intellettuali e altre distinzioni e graduazioni. Per esempio il cattolicismo è un grande centro e un grande movimento: ma nel suo interno esistono movimenti e centri parziali che tendono a trasformare l’intero, o ad altri fini più concreti e limitati e di cui occorre tener conto. Pare che prima di ogni altra cosa occorra “disegnare” la mappa intellettuale e morale del paese, cioè circoscrivere i grandi movimenti d’idee e i grandi centri (ma non sempre ai grandi movimenti corrispondo grandi centri, almeno coi caratteri di visibilità e di concretezza che di solito si attribuisce a questa parola e l’esempio tipico è il centro cattolico). Occorre poi tener conto delle spinte innovatrici che si verificano, che non sempre sono vitali, cioè hanno una conseguenza, ma non perciò devono essere meno seguite e controllate. Intanto all’inizio un movimento è sempre incerto, di avvenire dubbio, ecc.; bisognerà attendere che abbia acquistato tutta la sua forza e consistenza per occuparsene? Neanche è necessario che esso sia fornito delle doti di coerenza e di ricchezza intellettuale: non sempre sono i movimenti più coerenti ed intellettualmente ricchi quelli che trionfano. Spesso anzi un movimento trionfa proprio per la sua mediocrità ed elasticità logica: tutto ci può stare, i compromessi più vistosi sono possibili e questi appunto possono essere ragioni di trionfo. Leggere le riviste dei giovani oltre quelle che si sono già affermate e rappresentano interessi seri e ben certi. Nell’Almanacco letterario Bompiani del 1933 sono indicati i programmi essenziali di sei riviste di giovani che dovrebbero rappresentare le spinte di movimento della nostra cultura: Il Saggiatore, Ottobre, Il Ventuno, L’Italia vivente, L’Orto, Espero che non paiono molto perspicue, eccetto forse qualcuna. L’Espero per esempio, “per la filosofia” si propone “di ospitare i postidealisti, che eseguiscono un’attenta critica dell’idealismo, e quei soli idealisti che sanno tener conto di tale critica”. Il direttore di Espero è Aldo Capasso, ed essere postidealista è qualcosa come essere “contemporaneo”, cioè proprio nulla. Più chiaro, anzi forse il solo chiaro, è il programma di Ottobre. Tuttavia tutti questi movimenti sarebbero da esaminare, snobismo a parte.
Distinzione tra movimenti militanti, che sono i più interessanti, e movimenti di “retroguardia” o di idee acquisite e divenute classiche o commerciali. Tra questi dove mettere l’Italia Letteraria? Non certo militante e neppure classica! Sacco di patate mi pare proprio la definizione più esatta ed appropriata.

Dissensi interni di partito attraverso la collaborazione a giornali di altra tendenza

Quando il deputato di un movimento popolaresco parla in Parlamento (e un senatore al Senato) ci possono essere tre o più versioni del suo discorso: 1) la versione ufficiale degli Atti parlamentari, che di solito è riveduta e corretta e spesso edulcorata post festum; 2) la versione dei giornali ufficiali del movimento al quale il deputato appartiene ufficialmente: essa è combinata dal deputato d’accordo col corrispondente parlamentare, in modo da non urtare certe suscettibilità o della maggioranza ufficiale del partito o dei lettori locali e non creare ostacoli prematuri a determinate combinazioni in corso o desiderate; 3) la versione dei giornali di altri partiti o dei così detti organi della pubblica opinione (giornali a grande diffusione) che è fatta dal deputato d’accordo coi rispettivi corrispondenti parlamentari in modo da favorire determinate combinazioni in corso: tali giornali possono mutare da (un) periodo all’altro a seconda dei mutamenti avvenuti nelle rispettive direzioni politiche o nei governi. Lo stesso criterio può essere esteso al campo sindacale, a proposito dell’interpretazione da dare a determinati eventi o anche all’indirizzo generale della data organizzazione sindacale. Per esempio: la Stampa, il Resto del Carlino, il Tempo (di Naldi) hanno servito, in certi anni, da casse di risonanza e da strumenti di combinazioni politiche tanto ai cattolici come ai socialisti. Un discorso parlamentare (o uno sciopero, o una dichiarazione di un capo sindacale) socialista o popolare, era presentato sotto una certa luce da questi giornali per il loro pubblico, mentre era presentato sotto altra luce dagli organi cattolici o socialisti. I giornali popolari e socialisti tacevano addirittura al loro pubblico certe affermazioni di rispettivi deputati che tendevano a rendere possibile una combinazione parlamentare-governativa delle due tendenze, ecc. ecc. E’ indispensabile anche tener conto delle interviste date dai deputati ad altri giornali e degli articoli pubblicati in altri giornali. L’omogeneità dottrinale e politica di un partito può anche essere saggiata con questo criterio: quali indirizzi sono favoriti dai soci di questo partito nella loro collaborazione ai giornali di altra tendenza o così detti di opinione pubblica: talvolta i dissensi interni si manifestano solo così, i dissidenti scrivono, in altri giornali, articoli firmati o non firmati, danno interviste, suggeriscono motivi polemici, si fanno provocare per essere “costretti” a rispondere, non smentiscono certe opinioni loro attribuite ecc.

I lettori

I lettori devono essere considerati da due punti di vista principali: 1) come elementi ideologici, “trasformabili” filosoficamente, capaci, duttili, malleabili alla trasformazione; 2) come elementi “economici”, capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri. I due elementi, nella realtà, non sono sempre distaccabili, in quanto l’elemento ideologico è uno stimolo all’atto economico dell’acquisto e della diffusione. Tuttavia, occorre nel costruire un piano editoriale, tenere distinti i due aspetti, perché i calcoli siano realisti e non secondo i propri desideri. D’altronde, nella sfera economica, le possibilità non corrispondono alla volontà e all’impulso ideologico e pertanto occorre predisporre perché sia data la possibilità dell’acquisto “indiretto”, cioè compensato con servizi (diffusione). Un’impresa editoriale pubblica tipi diversi di riviste e libri, graduati secondo livelli diversi di cultura. E’ difficile stabilire quanti “clienti” possibili esistano di ogni livello. Occorre partire dal livello più basso e su questo si può stabilire il piano commerciale “minimo”, cioè il preventivo più realistico, tenendo conto tuttavia che l’attività può modificare (e deve modificare) le condizioni di partenza non solo nel senso che la sfera della clientela può (deve) essere allargata, ma che può (deve) determinarsi una gerarchia di bisogni da soddisfare e quindi di attività da svolgere. E’ osservazione ovvia che le imprese finora esistite si sono burocratizzate, cioè non hanno stimolato i bisogni e organizzato il loro soddisfacimento, per cui è spesso avvenuto che l’iniziativa individuale caotica ha dato migliori frutti dell’iniziativa organizzata. La verità era che in questo secondo caso non esisteva “iniziativa” e non esisteva “organizzazione” ma solo burocrazia e andazzo fatalistico. Spesso la così detta organizzazione invece di essere un potenziamento di sforzi era un narcotico, un deprimente, addirittura un ostruzionismo o un sabotaggio. D’altronde non si può parlare di azienda giornalistica ed editoriale seria se manca questo elemento: l’organizzazione del cliente della vendita, che essendo un cliente particolare (almeno nella sua massa) ha bisogno di una organizzazione particolare, strettamente legata all’indirizzo ideologico della “merce” venduta. E’ osservazione comune che in un giornale moderno il vero direttore è il direttore amministrativo e non quello redazionale.

Oltre la grata: così abbiamo incontrato la clausura, ai tempi di internet

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Cecilia Andrea Bacci e Alessandra Borella

“Servizio ben realizzato, interessante e per certi versi sorprendente. Costruito su un’idea, con un taglio particolare e una cura insolita, ci offre le immagini inedite di donne che hanno fatto una scelta di vita diversa”.

E’ la motivazione della giuria della Settima Edizione del Premio dedicato alla memoria e all’impegno giornalistico di Gaspare Barbiellini Amidei vinto (nella sezione tv e radio) da Cecilia Andrea Bacci e Alessandra Borella, per il servizio video “Oltre la grata, la clausura al mondo d’oggi”, trasmesso il 21 marzo 2014 su Quattro Colonne SGRT News – testata della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.

Il Premio, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, è rivolto ai giovani impegnati nella professione (sotto i 35 anni) per incoraggiare un giornalismo libero, innovativo e di qualità. 

Il tema della Settima Edizione era: “Verde, Bianco e ROSA? L’Italia delle donne”. Dacia Maraini è stato Giurato speciale per l’Edizione 2014. 

di Alessandra Borella e Cecilia Andrea Bacci

È dicembre. Seduta dietro la grata, il velo le nasconde la testa, i capelli, le orecchie. Quello che colpisce all’istante osservando il suo volto incorniciato, è la pelle rosea e luminosa che non ne tradisce l’età. Sembra una ragazza di vent’anni. Slanciata, bella. È una donna che ne ha compiuti quaranta pochi giorni fa. Si chiama Sara. Non un filo di trucco, i suoi occhi sono dolcissimi. È la Madre Abbadessa del convento.

Madre Sara, la badessa del monastero di Sant'Agnese

Madre Sara, la badessa del monastero di Sant’Agnese

È lei che deciderà se farci entrare. Io e Cecilia abbiamo deciso di raccontare la clausura. Sarà il tema del nostro reportage. Questa curiosità, così lontana dalla nostra vita personale e professionale, ci trova in sintonia. Molte telefonate, un solo “sì” ad accordarci un appuntamento di persona. Quello del monastero delle clarisse di Sant’Agnese, nel centro storico di Perugia. Si trova in corso Garibaldi, dove ci sono tre conventi in 200 metri: clarisse, benedettine e domenicane.

Quello delle clarisse è noto alla comunità anche perché custodisce un prezioso dipinto del Perugino, la “Madonna delle Grazie con santi”, conosciuto come “Madonna Immacolata” negli archivi del monastero.

Papa Leone XIII concesse una dispensa dalla clausura, nella zona che va dall’esterno al corridoio che porta dentro la cappella di sant’Agnese, dov’è custodito il Perugino. Le monache riebbero il monastero dal demanio in cambio dell’impegno a fare da guide a chi volesse visitare il quadro. Ed è tuttora così, dal primo decennio del Novecento.

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L’ingresso del monastero

Salendo la stradina che porta alla piazzetta dove sorge il palazzo, si respira un’atmosfera mistica. Sarà per il silenzio straniante, cui non siamo abituate. Un’oasi di pace, nel cuore della città.

La prima volta che entriamo nel refettorio, non è Sara ad accoglierci. La luce filtra fioca da una sola finestra. Si gela. I minuti di attesa sono interminabili. Una luce si accende, un rumore sottile di passi si avvicina. Entra Mariachiara. È minuta, eppure sprigiona una forza che invade la stanza. Incute timore. È la prima suora di clausura che vediamo. Finora, ne avevamo solo sentito parlare. Ci stringe le mani, gesto che faranno tutte, sempre. Ci invita ad accomodarci, siamo tese. Due ore di colloquio. Ci scruta, dietro le lenti spesse degli occhiali. Ci interroga sul progetto, con una placida ma autorevole solennità.

In quei momenti non ci saremmo mai immaginate che proprio Mariachiara ci avrebbe guidato all’interno, con i suoi passetti rapidi e scattanti, costringendoci ad un inseguimento serrato con le telecamere e i fili del microfono, che dalla sua veste alle nostre mani si incastrano ovunque. Reggerà il cavalletto, raccontando senza sosta la storia di quei luoghi, come una vera “producer”, così come l’abbiamo ribattezzata scherzosamente in seguito. È stata lei la nostra prima sostenitrice. Ci ha dato fiducia ed è bastato un suo sguardo primaverile e materno, dietro la grata, con il montaggio finale mostrato loro in anteprima sul nostro computer, per capire che non avevamo fallito nel desiderio di raccontarle fedelmente, senza tradirne lo spirito, senza violarne l’intimità.

In un mese di post-produzione, decine di ore di girato erano lì, davanti ai loro occhi, racchiuse in otto minuti. Mariachiara, Sara e poi Speranza e Agnese. Sono quattro delle quindici sorelle clarisse che ci hanno aperto le porte del monastero in cui vivono. Speranza è perugina, ha una laurea in scienze politiche. Ironizza sulla sua vocazione e il suo viso esplode in risate spontanee e contagiose. Agnese è calabrese, ha studiato legge. Quando risuona una voce squillante al di là delle pareti, è lei che ne sta combinando una delle sue. Si occupano dei ritiri spirituali nei quali ospitano i giovani (io e Cecilia comprese), curano il sito internet e rispondono assiduamente alle email.

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Sono seguiti numerosi colloqui dopo il primo con suor Mariachiara. Qualche messa e gli inviti ad assistere ai vespri (la preghiera della sera) e alle adorazioni eucaristiche. Alcuni accettati: né io, né Cecilia, abbiamo avuto timore di rimettere piede in una chiesa. Non avremmo potuto capire appieno la clausura senza partecipare, almeno in parte, al tempo delle preghiere, che scandisce la loro giornata. Non conta condividerle o recitarle.

Dentro la chiesetta adiacente al monastero, potevamo scorgere le nostre “ragazze”, dalla finestrella con la grata che si trova dietro l’altare: erano sedute sulle panche in legno del coro, dall’altra parte del muro. Avrei giurato di scorgere, più di qualche volta, malcelati sorrisi rivolti a me e Cecilia, sedute sui banchi con espressione seriosa (o, piuttosto, malcelata rassegnazione). Passano l’avvento e il Natale.

Solo a metà gennaio riceviamo la telefonata tanto attesa. “Vi faremo raccontare le nostre storie. Potrete entrare con la telecamera”. Il nostro progetto prende forma. Tutto ciò che è accaduto poi, lo raccontano le nostre immagini. Quasi tutto. Non raccontano l’abbraccio che ci ha unito, la prima volta che si è aperto il portone e ci siamo viste tutte quante, una di fronte all’altra, senza grata. O lo stupore quando ci siamo accorte dei loro piedi nudi dentro i sandali, in pieno inverno. O le risate fragorose, l’ironia, le prese in giro, quando io e Cecilia, incaponite su questioni tecniche, costringevamo le ignare e docili sorelle, di volta in volta soggetti dell’inquadratura, a estenuanti prove e rifacimenti.

Le immagini non raccontano le ore trascorse in loro compagnia, che non si contano. Il profumo delle pietanze in cucina, la polvere sulle pagine dei libri antichi, in biblioteca. Otto minuti sono giorni e giorni, sono ritagli di tempo, tra un vespro e l’altro, per loro, tra una lezione e l’altra, per noi. Sono le domeniche di febbraio. Sono ogni momento utile. Sono pranzi, sorrisi, racconti, confidenze. Sono ore di interviste a tu per tu.

Non ci siamo risparmiate domande scomode: volevamo raccontare la vita claustrale senza pregiudizi e senza indulgenze, dal loro rapporto con il corpo, alla maternità, all’amore. Da donne a donne.

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Non sapremo mai come vivono le altre settemila suore di clausura in Italia, ognuna con il suo ordine monastico, con le sue regole e la sua più o meno stretta osservanza. Abbiamo raccontato le storie di quattro monache, stralci della loro esistenza quotidiana, discreta e custodita con grazia. Non leggono i giornali, ma si concedono qualche film, proiettato su un lenzuolo bianco, nel salone sotterraneo che somiglia ad una grande taverna.

Quello che fanno per la comunità va oltre la preghiera; vivono di carità, ma non lesinano aiuto concreto, materiale e spirituale, ai bisognosi, che sia un piatto di pasta, o una parola di conforto. La loro scelta di fede resta incomprensibile alla ragione. Ma non si può restare insensibili dinanzi alla profondità di un incontro umano.

Oltre il mestiere, che ci ha portato a documentarlo, e oltre la grata, che le separa da noi, ma solo fisicamente. Dietro quella grata ci siamo io e Cecilia, inquadrate dall’interno della clausura all’inizio del nostro reportage. Siamo noi, nel mondo che spesso diventa una prigione a cielo aperto, ad essere indagate e interrogate da loro, rinchiuse e libere al tempo stesso. Credenti o no, la serenità che abita quel luogo, quei corpi e quelle menti, entra sotto la pelle. La si vive mettendo piede nella casa di Sara, Mariachiara, Speranza e Agnese. E’ calore. Il calore dell’accoglienza e dell’amicizia. Questo, no, le immagini non possono proprio raccontarlo.