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Perugia, 23 November 2024  

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Tu chiamale, se vuoi, emozioni

di Carlo Freccero

 

I brani sono tratti dal libro “Televisione” di Carlo Freccero, edito da Bollati Boringhieri.

Dall’approfondimento della notizia al consumo immediato

La diffusione sul territorio di mezzi di registrazione a basso costo, telefonini e cineprese, che permettono anche all’uomo della strada di raccogliere la testimonianza di un evento improvviso, ha in qualche modo “democratizzato” l’informazione. Tutti possono concorrere a creare una notizia. E difficilmente un evento può passare inosservato o restare privo di documentazione. Eventi drammatici come il G8, sono stati ripresi da tutte le possibili angolazioni. Niente può essere occultato. La disseminazione sul territorio di mezzi di comunicazione a basso costo, la possibilità di diffondere tramite internet le notizie che i media ufficiali censurano, ha dato nuovo fiato e nuove speranze alla controinformazione, che dagli anni del movimento si è evoluta sino a oggi.

Oggi la verità sembra più vicina e documentabile. Ma c’è un effetto perverso delle tecniche digitali, che fornisce nuovi strumenti alla manipolazione dell’informazione e alla sua spettacolarizzazione. L’uso della diretta e la moltiplicazione delle cineprese sul territorio (diffusione delle reti di informazione CNN, FOX, degli strumenti di uso personale, telefonino, cineprese digitali ecc.) hanno fatto sì che i grandi eventi possano avere una copertura video in diretta quasi integrale. L’evento viene quindi consumato nella sua immediatezza, come puro spettacolo. Passa in secondo piano la ricerca delle cause e delle motivazioni.

Il motivo è prima di tutto mediatico. Un giornalismo in differita (e un giornalismo che interviene a posteriori è necessariamente in differita) anziché mostrare l’evento deve fare un discorso più complesso, articolato e approfondito. Pensiamo a una notizia trasmessa dalla televisione, commentata dai giornali, oggetto di indagine da parte di settimanali e mensili, in video e sulla carta stampata. A ogni passaggio la notizia si arricchisce di particolari e colpi di scena. La televisione ha il pregio della tempestività. La carta stampata, ma anche il reportage, trasformano l’evento in un’inchiesta, inseriscono le immagini in un rapporto di causa-effetto che conferisce senso agli eventi. Il fatto che la televisione inserisca gli eventi nel novero delle grandi cerimonie mediatiche, fa sì che la consumazione spettacolare, visiva, prevalga sulle analisi. La consumazione dell’evento non è quindi razionale, ma emotiva.

E c’è anche una componente culturale. Per la mia generazione un grande evento era sinonimo di diffidenza e desiderio di comprensione. Oggi l’evento provoca commozione. Non dimentichiamo che la filosofia del Novecento è stata dominata dalla cosiddetta scuola del sospetto: Marx, Freud, Nietzsche. Niente accade per caso. Ogni evento ha profonde motivazioni, o sociali o interiori. Comprendere un evento è dipanare una catena di connessioni.

Oggi l’evento non deve essere compreso, deve emozionare. La sua consumazione è immediata. Non interessa la sfera logica. Il reality ci ha abituato a cercare negli eventi soprattutto un impatto emotivo.

Mi ha colpito l’affermazione di uno studente di comunicazione in una trasmissione di “Rai Educational” sull’11 settembre. Ha detto più o meno: “Non mi interessa sapere chi ha organizzato tutto, mi interessa conoscere i sentimenti di quei civili e di quei pompieri che dell’11 settembre sono stati le vittime”. Introspezione anziché analisi politica.

La consumazione dell’evento come spettacolo in diretta, non esclude approfondimenti e inchieste. Questi verranno però necessariamente in epoche successive e, come i reportage venduti in cassetta, avranno una circolazione marginale e limitata a un pubblico motivato. Trecentomila copie vendute di un reportage, rappresentano grandi numeri, ma non sono nulla rispetto ai milioni di spettatori raggiungibili dalla televisione. L’articolo e il reportage si rivolgono a un pubblico dotato di capitale culturale, abituato ad affrontare gli eventi come problemi.

La grande massa del pubblico vive l’impatto con l’evento solo emotivamente e rimuove immediatamente l’attenzione perché nuove immagini lo coinvolgono.

Il cambiamento di segno dell’informazione è certificato anche dall’attacco condotto dei giornali tradizionali da parte di pamphlet come La casta dei giornali di Beppe Lopez o di tribuni del popolo come Beppe Grillo, secondo il quale i giornali sono superflui perché le notizie sono reperibili su internet.

Rispetto alla notizia pura e semplice il giornale fa opera di approfondimento, ma quest’approfondimento è ritenuto superfluo.

L’infotainment

Se la notizia non è più oggetto di approfondimento, sarà allora gestita per stabilire col pubblico un rapporto di intrattenimento. La parola infotainment nasce dalla crasi, dalla sintesi di informazione e intrattenimento.

E’ una forma di informazione nata soprattutto per divertire. Ed è il tipico prodotto della naturale tendenza all’ibridazione della televisione. La ricerca dell’audience porta a replicare i generi e i format di successo. Ma la ripetizione dei prototipi non può essere identica. Ogni nuovo programma implica uno scarto rispetto al modello di successo e per le varianti si attinge a piene mani ad altri prototipi vincenti. Così la creazione di programmi televisivi si risolve in un processo continuo di donazione e di ibridazione. Si cercano i programmi più graditi al pubblico per incrociarli tra loro e da questi accoppiamenti può scaturire un nuovo genere.

L’infotainment è un misto di notizie e varietà, dove spesso le notizie sono recitate da comici di professione, come in Striscia la notizia. Ma la presenza del comico non ne depotenzia l’importanza, anzi, in alcuni casi conferisce alla notizia un’aura di maggiore autenticità. Non a caso in Italia, comici di professione come Dario Fo o Beppe Grillo si sono trasformati in politici e guru carismatici. Da sempre, sia nelle società liberali che nelle dittature, la critica del potere è affidata al comico e alla satira, a maggior ragione in presenza di censura.

Nelle società premoderne la critica del re era compito del buffone, che veniva peraltro mantenuto a corte proprio per questo. La satira del potere ha il fine riconosciuto di allentare la tensione e stemperare il risentimento con una risata. Il legame tra satira e verità è antichissimo.

Le moderne trasmissioni di infotainment, come Striscia la notizia o Le iene, conservano nella loro struttura una vocazione da Robin Hood: affrontano potenti, imbroglioni, mistificatori, chiedendo loro giustificazione in nome del pubblico che rappresentano.

Esiste una seconda forma di infotainment, il cui scopo è sempre l’intrattenimento, in cui la contaminazione non sta tanto tra informazione e varietà, ma tra forme alte e basse di informazione.

L’informazione ha molteplici declinazioni, dalle più alte, come l’inchiesta e il reportage, alle più basse come il gossip. Il gossip è un genere di informazione “bassa”, che ha da sempre i suoi cultori, soprattutto nei paesi anglosassoni. Tra i lettori di quotidiani, molti sono consumatori di tabloid scandalistici e su prodotti di questo tipo hanno costruito la loro fortuna editori come Murdoch.

La perdita di centralità della politica, l’oblio di parole forti come verità o indignazione nel giornalismo, hanno fatto sempre più dello spazio privato dei vip una sorta di spettacolo. La contaminazione tra generi, nei rotocalchi di informazione televisiva in Italia, da Porta a Porta a Matrix, si costruisce sui generi alti e bassi dell’informazione stessa: economia e gossip, politica e cronaca, nelle varianti rosa e nera.

Tutta l’interminabile cronaca dei processi di nera in diretta ha lo scopo di soddisfare un desiderio di fiction, di narrazione. La cronaca fornisce prototipi pronti, utilizzabili con costi contenuti, dei generi narrativi di maggior successo: rosa, noir, giallo, horror. Il giornalismo si fa telenovela, romanzo d’appendice, feuilleton.  

 

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Le bombe di carta

di Dario Biocca

bombe_carta

Militari britannici ‘armano’ una bomba T-3 sostituendo all’esplosivo giornali e libri (agosto 1944)

Numerosi articoli, saggi e libri, apparsi recentemente, ci aiutano a conoscere le impressioni che gli americani ebbero dell’Italia quando i contingenti della Settima armata sbarcarono in Sicilia nel luglio del 1943. Appena le forze alleate cominciarono a risalire la penisola, gli ufficiali del Psychological Warfare Branch assunsero il delicato compito di controllare la circolazione delle notizie, censurare i giornali, revocare le autorizzazioni alle testate politicamente “sospette” e adottare misure punitive per quanti, tra i giornalisti, si fossero macchiati di “crimini fascisti”.

Conosciamo il nome e il grado degli ufficiali del PWB, il loro addestramento, le iniziative assunte in zone di guerra e nelle aree liberate, i loro dubbi di fronte ai giornalisti italiani troppo repentinamente passati all’antifascismo. Dagli archivi sono emerse anche le improbabili autobiografie che redattori, cronisti e direttori presentarono al PWB per nascondere il loro passato descrivendosi come vittime invece che strumenti delle ventennali campagne fasciste di propaganda politica o razziale. Era l’inizio di una lunga vicenda di rielaborazione collettiva del passato di cui ha scritto di recente con accortezza, tra gli altri, Pierluigi Battista in Cancellare le tracce.

Assai meno conosciuta in Italia è invece la vicenda che condusse, dopo l’ingresso degli Stati Uniti in guerra, alla nascita del PWB e al dispiegamento di un formidabile apparato di propaganda e contropropaganda fondato sulla carta stampata e la radio. Scambiata a lungo (e ingenuamente) per il prodotto di un generico entusiasmo diffuso tra gli americani per la guerra contro il fascismo e il nazismo, che avrebbe “convertito” il nemico prima ancora di combatterlo, in realtà il PWB fu il risultato di una saldatura tra diversi elementi, esperienze e iniziative già avviate negli Stati Uniti da alcuni anni. Regista di questa operazione, oggi lo sappiamo in dettaglio, fu la Fondazione Rockefeller che già negli anni Trenta finanziò ricerche, allora considerate pionieristiche ed eticamente discutibili, su come i media potessero intervenire per proteggere il pubblico americano dal contagio delle ideologie totalitarie. Non era, in termini teorici e pratici, un compito facile.

Per alcuni anni, alla vigilia della guerra, la Fondazione Rockefeller organizzò seminari e incontri (segreti) tra accademici, giornalisti, leader politici e opinion makers per meglio delineare i meccanismi psicologici che conducevano (e conducono) la mente a creare immagini e associarle tra loro così come, secondo la scuola psicologica “transattiva” allora prevalente in America, ciascuno è indotto a fare per ogni elemento estraneo alla propria, diretta esperienza. Si tratta di “immagini della mente”, secondo l’espressione di Walter Lippmann, elaborate per rappresentare luoghi, persone, culture, ideologie, tutto ciò che conosciamo ma è lontano dalla nostra vita di ogni giorno. Cancellando, modificando o creando nuove immagini, in un’azione concertata tra i più pervasivi mezzi di informazione di massa, gli uomini della Rockefeller speravano di salvare l’America dall’antisemitismo e dall’odio ideologico. Alla fine, osservarono i critici, si trattava di carpire il segreto della propaganda dei regimi totalitari, perfezionarne il metodo e modificarne i contenuti fino a ottenere l’effetto opposto. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale le iniziative della Fondazione si intensificarono e diedero vita a una vera campagna, organizzata in segreto, per difendere sulla stampa e alla radio, con ogni mezzo, i valori della democrazia.

Concordare una strategia segreta tra direttori, redattori e corrispondenti di testate giornalistiche era un metodo “fascista” di difendere la libertà? Secondo alcuni lo era ed era per questo inaccettabile. Presupponeva una visione stereotipata del nemico, una caricatura della sua identità e della sua ideologia, persino un’esasperazione della sua viltà e immoralità – anche Il grande dittatore, il capolavoro di Chaplin uscito a New York nel 1940, fu allora oggetto di simili critiche. Ma il metodo adottato dalla Fondazione Rockefeller alla fine produsse risultati persino superiori alle aspettative e protesse efficacemente l’America; ebbe successo, in particolare, con gli immigrati provenienti dai Paesi più ostili agli Stati Uniti, tra i quali gli italoamericani, i quali a grande maggioranza scelsero la loro nuova patria e la difesa della democrazia.

Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra il concetto di opinione pubblica e il ruolo dei media nella manipolazione delle “immagini della mente” erano già stati esaminati attentamente da una nutrita pattuglia di studiosi e scienziati della comunicazione fino a definire, sperimentare e misurare un metodo efficace per influenzare il pubblico, anche il più avverso. Lo stratega che per primo applicò il metodo al conflitto mondiale fu lo psicologo Hadley Cantril, fondatore del Princeton Listening Project poi finanziato anche dalla Cia. Cantril era un entusiasta sostenitore della radio come strumento di propaganda, utile a introdurre in territorio nemico i “semi” della democrazia americana. Tutti nel mondo, a suo avviso, li avrebbero accolti e condivisi poiché, così a lui sembrava, erano valori universali. Quanti vi si opponevano erano solo male informati; il sistema (occulto) della comunicazione doveva persuaderli escogitando metodologie appropriate e creando “immagini della mente” sempre più efficaci. Il successo del PWB, misurato nel corso della guerra e negli anni successivi, fu straordinario. Nessun Paese come gli Stati Uniti d’America riuscì a proiettare di sé una immagine così accattivante, persuasiva, generosa e per molti aspetti autentica.

L’altro stratega dell’uso bellico del sistema messo a punto dalla Fondazione Rockefeller fu William Donovan, il celebre capo dei servizi di informazione americani dispiegati sui fronti di tutto il mondo. In pochi mesi “Bill” Donovan rivoluzionò il reclutamento non più di “spie”, intese come semplici informatori infiltrati tra le file nemiche, ma di personalità autorevoli, competenti e influenti – soprattutto giornalisti. A capo della rete europea di spionaggio Donovan chiamò quindi Allen Dulles, un conoscitore attento dell’Italia e amico personale di numerosi esuli antifascisti, autorità vaticane e, naturalmente, giornalisti. Fu anche per sua iniziativa che dai cieli di tutta Europa, invece di bombe incendiarie ed esplosivo, a volte caddero sulle città nemiche giornali, volantini, riviste e libri.

Molti elementi ancora sono emersi dai più recenti lavori storiografici sul PWB. Gli ufficiali inviati in Italia, in particolare, espressero dubbi sulla conversione delle testate e dei giornalisti alla democrazia e ne riferirono ai comandi militari e a Washington. Tuttavia i più accorti tra loro si persuasero che non si trattava di machiavellici accomodamenti né di menzogne; era invece un fenomeno più complesso, di cui anche la Fondazione Rockefeller avrebbe preso atto. L’adesione al fascismo da parte dei giornalisti italiani era stata davvero superficiale e, per alcuni, persino insignificante; tuttavia, così anche l’adesione alla democrazia sarebbe stata superficiale e, per alcuni, insignificante. In Italia, conclusero i responsabili del PWB, i giornali esercitavano un potere legittimato dai partiti politici e dai grandi gruppi industriali. Malgrado i mutamenti introdotti nel 1944 nella struttura e organizzazione dell’Albo dei giornalisti, presto il Parlamento avrebbe reintrodotto le regole del passato, incluso il “fascistissimo” Ordine dei giornalisti – come in effetti avvenne nel febbraio del 1963. Dietro questo ritorno al passato, tuttavia, non vi era nostalgia per il regime di Mussolini ma la persuasione che i partiti e il Parlamento, non la società civile nelle sue molteplici componenti, dovessero esercitare un controllo vigoroso e verticale sull’informazione. Era una visione della democrazia e della libertà di stampa molto diversa da quella americana. Il PWB, dunque, poteva esportare la democrazia in Italia ma vi sarebbe riuscito solo in parte; dopo venti anni di dittatura, gli italiani intendevano rieducarsi alla libertà ma lo avrebbero fatto da soli, e a modo loro.