Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l'Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo
Perugia, 26 December 2024  

Centro Formazione Giornalismo Radiotelevisivo

Archivio categoria: Stories

A scuola di Fiction: “come narrare una storia perché il mondo la ascolti”

di Lorenzo Grighi

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Laurie Hutzler durante una lezione del master

Romanzo criminale, Gomorra, 1992. Serie che hanno cambiato il modo di guardare, e di pensare, alla televisione italiana.

Prodotti di eccellenza, esportati anche all’estero, a dimostrazione che fare fiction di qualità è possibile anche in Italia.

Ma per scrivere sceneggiature di quel calibro non basta il talento: è necessario studiare, esercitarsi, correggere, cancellare e ricominciare da capo. Tanto meglio se nel farlo si è accompagnati da chi quel lavoro lo fa da una vita, da chi conosce tutti i trucchi del mestiere.

Per questo il Centro di Formazione di Perugia ha organizzato il primo Master di scrittura seriale di fiction, in collaborazione con Rai-Radiotelevisione Italiana/Direzione Rai Fiction, con il sostegno di ASFOR Cinema, Associazione Produttori televisivi (APT) e BNL Gruppo BNP Paribas.

Un corso di quattro mesi in cui sedici ragazzi in arrivo da tutta Italia si confrontano, spesso anche duramente, con le difficoltà della scrittura seriale. Un tipo di scrittura, come spiegano gli stessi docenti del Master, che è molto diversa da quella di un romanzo.

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L’ultimo libro di Bobette Buster

Occorre tenere bene a mente tutti gli elementi che sono propri della serialità, gli aspetti che si devono ripetere, la caratterizzazione dei personaggi, il modo in cui tenere sempre viva l’attenzione dello spettatore.

Un lavoro che i ragazzi stanno affrontando insieme a professionisti in materia, come Stefano Bises, Ivan Cotroneo, Giancarlo De Cataldo, Nicola Lusuardi, Andrea Purgatori, ma anche con sceneggiatori provenienti da Hollywood e dall’Inghilterra: Bobette Buster, Laurie Hutzler e Serena Cullen.

Family, drama, comedy, crime, melò: uno sguardo a tutto tondo sul mondo delle serie Tv, dallo studio teorico (con quelle che hanno fatto scuola, su tutte Breaking Bad) all’applicazione pratica.

Quella formazione pratica che è poi il vero obiettivo del corso. Al termine del Master ciascuno dei gruppi in cui si sono divisi i ragazzi (alcuni da quattro, altri da due componenti) dovranno infatti presentare la puntata pilota di una nuova serie da loro ideata.

Progetto non semplice, che sta assorbendo le energie fisiche e mentali dei partecipanti, che tra una lezione e l’altra, tra un docente e l’altro, approfittano delle pause per confrontarsi sull’ultima idea, sull’ultima intuizione che potrebbe rendere la propria serie migliore delle altre.

Lavoro che peraltro non finisce al termine delle 8 ore di lavoro quotidiano: gli stessi ragazzi raccontano di lunghe serate e nottate trascorse a discutere, alcune volte anche in maniera animata, per raccogliere gli spunti migliori di tutti e metterli nero su bianco. Ciascuno dice di aver colto alcuni insegnamenti fondamentali dai diversi docenti che si sono alternati, e si dicono entusiasti dell’esperienza che stanno maturando.

Sedici ragazzi “chiusi” all’interno di una villa per essere addestrati a diventare scrittori seriali. Un po’ Grande Fratello, un po’ Agata Christie. Chissà, magari qualcuno sta già pensando di farci una serie Tv.

Torino, città regina e città operaia.
Come le sue api

Laura Aguzzi

Laura Aguzzi

Tre mesi nella redazione de La Stampa, per contribuire alla realizzazione di contenuti per il sito, i dispositivi mobili e i social network della testata torinese.

È l’opportunità che ha offerto il Premio Giornalistico “Lauretana, Nella Vietti”, giunto alla seconda edizione e mirato alla scoperta dei giovani talenti del giornalismo digitale.

La giuria alla fine ha scelto Laura Aguzzi, 29 anni, di Rieti, ex allieva della nostra Scuola di giornalismo radiotelevisivo, formatasi come praticante a Perugia durante l’XI biennio (2012-2014).

Qui di seguito il suo reportage sul “segreto di Torino”: le api, il miele, gli alveari e una società che li gestisce in modo innovativo. Laura ha raccontato con un videoreportage la storia di Antonio Barletta, che a Torino è riuscito a unire la sua passione per le api e per quella città. Così quattro anni fa inizia a realizzare il primo progetto di apicultura urbana.  

di Laura Aguzzi

Urbees Torino

Dalla pagina Facebbok del Progetto UrBEES

Prendere un caffè seduti accanto a 120mila api. Sembra impossibile eppure può succedere in pieno centro a Torino. Il terrazzo di Antonio Barletta, ideatore e fondatore di Urbees, è infatti anche la sede di due degli alveari della sua impresa locale. Qui, migliaia di piccole operaie continuano imperterrite il loro lavoro, senza curarsi di chi viene a osservarle.

L’avventura di questo trentenne inizia quattro anni fa, durante il suo lavoro come maschera in teatro, dopo un passato in Fiat. Lì incontra un apicoltore esperto e la passione per le api si unisce a quella per la città: nasce così il primo progetto di apicoltura urbana in Italia.

Un movimento, come ama definirlo Antonio, che ha già preso piede in tutte le maggiori metropoli europee e americane. E che oggi giunge in Italia nella sua città laboratorio.

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Dalla pagina Facebbok del Progetto UrBEES

In totale la produzione annua di Urbees si aggira attorno ai 240 kg di miele: è il miele di Torino. Dal 2010 gli alveari di Urbees si sono moltiplicati e oggi sono dislocati in luoghi diversi: dal Parco d’arte vivente (PAV), dove le api sono ospitate in un’installazione artistica, al Bunker, centro sociale nel quartiere Barriera di Milano. Qui, oltre a sale da concerti, capannoni industriali, orti urbani e una piscina da wakeboard, ci sono anche otto arnie per le api.

C’è qualcosa di vagamente modaiolo nel darsi all’apicoltura in città. Eppure la questione delle api è seria: lo dimostra anche il recente interesse del presidente americano Barack Obama, che a giugno ha varato un piano speciale per la loro protezione. Le api sono fondamentali per la coltura di frutta e ortaggi, ma sono in pericolo a causa delle campagne inquinate dai pesticidi. Per questo negli ultimi anni hanno iniziato a migrare verso le città, dove il clima temperato e la varietà di spazi verdi si rivelano per loro un ottimo ambiente.

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Dalla pagina Facebbok del Progetto UrBEES

L’aspetto più innovativo messo in luce da Urbees riguarda per l’azione delle api come bioindicatori. “La domanda che mi sento rivolgere più spesso è: il miele di città è inquinato? – si stupisce Antonio – Le analisi fatte smentiscono questi timori: il nettare che l’ape raccoglie è in un ambiente protetto del fiore ed è estremamente filtrato. Ad essere esposto all’inquinamento è invece il polline: analizzandolo, grazie alle api, si possono individuare sostanze nocive, come radionuclidi o idrocarburi. Un’operazione che se fatta attraverso postazioni meccaniche richiederebbe un investimento di decine di migliaia di euro”.

Nel centro di Torino oggi c’è una sola centralina per il controllo della qualità dell’aria. Quindici alveari e un’azione costante di analisi riuscirebbero invece a coprire l’intera città. Su questo aspetto per UrBees lavorano Valentina Mandirola, che si occupa di progettazione e divulgazione, e Francesca Cirio, che cura la mappatura della biodiversità urbana. Anche grazie al loro contributo, il progetto, selezionato assieme ad altri sei su 179 candidati, ha vinto il premio Sodalitas Challenge. UrBees da ottobre sarà quindi inserita in un incubatore d’impresa, il milanese Make a Change, specializzato in idee ad alto valore sociale e ambientale.

Ma nel fare il grande salto vengono al pettine anche i nodi del sistema imprenditoriale italiano. “In Italia ci sono moltissime start up – si sfoga Antonio – con tante belle idee. Quello che manca sono gli investimenti, qualcuno che dia modo a queste iniziative di crescere.” Quello che Antonio spera possa accadere a UrBees. Un obiettivo per il quale si batte con la stessa operosità delle sue api. E con la speranza di ottenere dal suo lavoro frutti almeno altrettanto dolci.

Sbatti il politico in copertina

di Marco Mazzoni*

Vanity FairI politici sono sulle prime pagine dei principali settimanali di gossip, dei rotocalchi e delle riviste di attualità e costume con la stessa frequenza delle celebrità del mondo dello spettacolo. Le riviste patinate sono oggi uno degli strumenti preferenziali attraverso cui informazioni e pettegolezzi (pseudo)privati riguardanti la vita dei politici arrivano a un pubblico che molto spesso è lontano dalla politica, o, comunque, poco avvezzo a seguire l’evolversi del dibattito pubblico. Crozza-Berlusconi lo disse: “Tutti che mi criticano, il Wall Street Journal, il Financial Times, ma chi li legge? Sono in inglese! Quante copie vende Chi e quante il Financial Times? Coglioni!” (da Ballarò del 5 febbraio 2013).

Le riviste di costume, attualità e gossip hanno acquisito una rilevanza considerevole nel panorama politico italiano, a maggior ragione durante i periodi di campagna elettorale, una fase di confronto-scontro politico fisiologicamente caratterizzata da toni gridati e attacchi personali. La sempre maggiore attenzione che la stampa patinata riserva ai politici del nostro paese determina importanti effetti, politicamente significativi, anche sul tipo di lettori che si avvicina a questi strumenti “non convenzionali” di comunicazione politica. È una nuova forma di “going public”, sebbene acquisisca tonalità e sfumature cangianti a seconda di chi sono le personalità politiche in questione, che per i leader politici rappresenta una preziosa opportunità per instaurare un canale comunicativo con una fascia di cittadini (ed elettori) difficilmente raggiungibili attraverso l’utilizzo dei mezzi di comunicazione politica convenzionale.

Di fatto, viviamo nell’era della politica pop. Nel 2009 Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini pubblicano un volume dal titolo: “Politica pop. Da Porta a Porta a L’isola dei famosi”. Il testo in questione mostra come anche in Italia, alla pari di altri paesi occidentali, i linguaggi della politica e i codici dell’intrattenimento vadano progressivamente accavallandosi, arrivando, in alcune circostanze, addirittura a sovrapporsi. In particolare, nell’era che stiamo vivendo, il politico moderno gioca un doppio ruolo. Per rafforzare il suo consenso è chiamato a gestire e a promuovere non solo la sua immagine pubblica, ma anche quella privata. Più esattamente, far circolare informazioni sul suo privato oppure evitare che circolino informazioni del suo privato che potrebbero danneggiarne la reputazione diventa un’azione importante tanto quanto lanciare la propria proposta politica, in quanto permette al leader politico di (ri)avvicinarsi alla gente comune.
Quando parliamo di politica pop, infatti, ci riferiamo a una politica (più) popolare, a una politica per tutti e quindi più comprensibile, più “vicina” alla gente: i leader si fanno più “umani”, hanno una vita come tanti e assomigliano all’uomo della strada. L’intreccio tra dimensione pubblica e privata è la vera novità, che mostra come l’intrattenimento (in particolare quello prodotto dalle riviste di attualità e gossip) non sia più soltanto il luogo del divertimento, ma anche quello in cui il politico promuove se stesso e la sua vita.

Oggi i media rappresentano il canale privilegiato all’interno del quale le diatribe e i dibattiti politici circolano ed entrano nelle case delle persone. A tal riguardo, Altheide e Snow, due sociologi americani, parlarono già nel 1979 di commistione tra media logic e political logic: al fine di adattarsi alla crescente centralità detenuta nelle società moderne dai mezzi di comunicazione di massa, la politica riadatta i propri linguaggi, i propri codici, e spesso, i propri tempi. Nell’era della politica pop, quotidiani come il Corriere della Sera e trasmissioni televisive come Porta a porta, a lungo identificata addirittura come “la Terza Camera”, rappresentano sempre delle arene ideali in cui il leader può narrare al grande pubblico la sua visione politica, spiegare agli elettori il Paese che ha in mente, e snocciolare la proposta programmatica che sottende a tale visione. Tuttavia, molto raramente in questi format il politico racconta se stesso. Ed è difficile che possa farlo.
Per tale ragione, se i politici individuano nel principale giornale italiano e nel salotto di Bruno Vespa un’arena preferenziale per discutere di alleanze e scenari politici, al tempo stesso, trovano nei settimanali di attualità e di gossip l’ambiente ideale per svelare a un pubblico politicamente non convenzionale particolari legati alla loro vita umana piuttosto che politica. E questa rappresenta un’importante evoluzione del processo di assimilazione dei canoni della media logic. Non solo la politica fa propri i codici della comunicazione di massa, ma è anche in grado di adattarsi, con modalità tuttavia variabili da caso a caso, ad ambienti mediali anche profondamente diversi tra loro, funzionanti secondo logiche e regole opposte.

Francesco Alberoni ha sottolineato come per molto tempo gli italiani, a differenza degli anglosassoni, abbiano tenuto la vita politica separata dalla vita privata. Il pettegolezzo sulle storie d’amore, i figli, la famiglia riguardava i divi dello spettacolo, non i politici. Non che il leader di partito nell’epoca dei partiti di massa non avesse una forte personalità; di fatto, aveva, se pensiamo a De Gasperi, Togliatti, Nenni solo per fare alcuni nomi, una forte personalità carismatica, ma la loro fisicità e la loro vita personale non erano oggetto di particolare interesse pubblico. In quel periodo, gli italiani che affollano le piazze non sono affascinati dall’uomo, ma dal politico. Nessuno conosceva il nome della moglie di questo o quel politico e poco interessava, nemmeno alle testate giornalistiche, se era divorziato o avesse amanti: eravamo nell’Italia dominata dalla Democrazia Cristiana, in cui probabilmente la gente dava anche per assodato che il politico fosse sposato. Famosa per l’eccezionalità fu la serie di fotografie di De Gasperi assieme alla sua famiglia nella casa di montagna nelle Dolomiti; mentre per gli altri personaggi della politica non era nemmeno possibile parlare di eccezioni, rispetto ad una riservatezza totale. Il politico insomma andava valutato soprattutto per le sue qualità politiche e per le sue capacità di governo, e, comunque, non sicuramente per i suoi amori o per la sua vita familiare. Non a caso, l’unico tradimento riconosciuto, in grado anche di richiamare l’attenzione del giornalista, era il “tradimento politico”: voltare le spalle alle decisioni prese dal proprio partito di appartenenza, soprattutto nel segreto dell’urna durante un voto importante in assemblea parlamentare, era il vero scandalo. E si provava un grande stupore quando dall’altra parte dell’oceano giungevano notizie di politici costretti a rinunciare a correre per una carica politica perché divorziati o per aver tradito il proprio partner.

In Italia il pettegolezzo amoroso come arma politica è sempre stata un’eccezione, almeno fino a quando non arriva Silvio Berlusconi. Con lui il gossip diventa rilevante dal punto di vista politico. Molto, sicuramente, dipende dalla marcata propensione allo scandalo che caratterizza il personaggio politico, dalle telenovele estive con Noemi e D’Addario e dalla decisione (molto mediatica) di Veronica Lario di separarsi da lui. Ma c’è di più. Berlusconi, infatti, è stato uno dei primi politici ad aver capito che il leader (post)moderno promuove la sua immagine pubblica anche aprendo agli occhi esterni la sua dimensione privata. I suoi eccessi uniti anche ai suoi successi non hanno soltanto provocato una desacralizzazione della politica, ma gli hanno anche permesso la diffusione di un particolare modello di vita. Un comportamento questo paragonabile a quello delle celebrità, sempre attente a promuovere e rendere visibile il loro modello di vita, e che soprattutto sembra essere accettato dalla gente comune, come si può dedurre da quegli studi in cui è stato mostrato che votando per Berlusconi gli italiani hanno scelto cosa Berlusconi stava proponendo come modello di vita quotidiana.

In altre parole, la proposta, corroborata da ricerche che sto portando avanti insieme al collega Antonio Ciaglia (University of the Witwatersrand, Johannesburg), è che anche in Italia il politico va considerato come una celebrità. Un volume di Mark Wheeler del 2013, dal titolo emblematico, “Celebrity Politics”, mostra come lo status di celebrità coinvolga tutti i principali leader politici, per il semplice fatto che i leader politici tendono sempre più a comportarsi come le star del mondo dello spettacolo. A volte sono gli stessi politici a contattare i paparazzi per essere fotografati in alcuni momenti della loro vita mondana. E il motivo dovrebbe essere abbastanza chiaro: i politici utilizzano la celebrità alla stregua di un’”arma politica” con l’obiettivo di rafforzare in primo luogo la loro visibilità e successivamente il loro consenso. La letteratura internazionale conferma quanto appena detto citando i casi di Ronald Reagan, Bill Clinton, Barack Obama e Tony Blair. Le nostre ricerche ci dicono che si può aggiungere a questo elenco, dando uno sguardo a ciò che sta succedendo nel nostro paese, anche i principali leader politici italiani. E di esempi se possono fare tanti. Guardando all’ultimo periodo, non si può tralasciare come si sia costruito la visibilità l’attuale presidente del Consiglio. Matteo Renzi ha partecipato alla “Partita del Cuore”, al programma televisivo di Amici (vestito come Fonzie) e ha deciso di rilasciare frequenti interviste a Chi e a Vanity Fair; l’obiettivo è apparso piuttosto chiaro: rafforzando la sua notorietà tra la gente sarebbe stata più agevole la sua scalata alla segreteria del Pd e poi alla presidenza del Consiglio.

Dietro tali cambiamenti, va riconosciuto il ruolo cruciale giocato proprio dai mass media, che hanno determinato il passaggio, ben descritto dal politologo francese Bernard Manin, dalla tradizionale “democrazia dei partiti” alla “democrazia del pubblico”. La “democrazia del pubblico” si contraddistingue per il progressivo allentamento dei legami subculturali e di rappresentanza degli interessi tra partiti ed elettori, tra governo e cittadini. La politica mediatizzata marca una nuova fase della vita democratica, una fase caratterizzata da una relazione diretta, ancorché mediata, tra leadership e cittadini, creando anche una nuova idea di interazione politica, un nuovo modo di fare politica, in cui agire politico ed agire comunicativo mediato non sono più distinguibili. Potremmo dire che nella “democrazia del pubblico” è la già citata “logica dei media” che ispira e governa il funzionamento tanto del mondo dello spettacolo quanto di quello della politica. Pertanto, in questo contesto, “pubblico” non si riferisce a ciò che interessa tutti, né all’arena idealtipica in cui vengono discussi argomenti che sono di rilievo generale. Bensì, evoca il cittadino-spettatore di fronte alla messa in scena della politica-spettacolo. Di fatto, però manca ancora un elemento che va evidenziato. Ed è qui che si focalizza maggiormente la mia “curiosità” di studioso.

Oggi democrazia del pubblico si sta sempre più traducendo, come notato anche da Ilvo Diamanti, in “democrazia del privato”. Dove i fatti personali e familiari diventano di pubblico interesse e non perché siano di interesse pubblico, ma perché interessano al pubblico. Ecco perché la politica pop non è soltanto un costrutto teorico o un paradigma interpretativo di una buona parte delle forme contemporanee di comunicazione politica ed elettorale, ma è un fenomeno con ampi riscontri fattuali, anche in un paese, come l’Italia, storicamente refrattario all’assorbimento indiscriminato e repentino di fenomeni sociali (e comunicativi) provenienti da Oltreoceano. In conclusione, il politico è una celebrità, perché la sua vita privata attira la curiosità delle persone come quella di una star del mondo dello spettacolo o dello sport; e come avviene per tutte le celebrità, inevitabilmente nella vita del politico si va sfaldando, come già Erving Goffman aveva previsto, ogni forma di distinzione fra dimensione pubblica (scena) e dimensione privata (retroscena). Al punto da divenire un politico “da copertina”.

*Marco Mazzoni (Università di Perugia) è uno dei coordinatori didattici del Centro

Oltre la grata: così abbiamo incontrato la clausura, ai tempi di internet

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Cecilia Andrea Bacci e Alessandra Borella

“Servizio ben realizzato, interessante e per certi versi sorprendente. Costruito su un’idea, con un taglio particolare e una cura insolita, ci offre le immagini inedite di donne che hanno fatto una scelta di vita diversa”.

E’ la motivazione della giuria della Settima Edizione del Premio dedicato alla memoria e all’impegno giornalistico di Gaspare Barbiellini Amidei vinto (nella sezione tv e radio) da Cecilia Andrea Bacci e Alessandra Borella, per il servizio video “Oltre la grata, la clausura al mondo d’oggi”, trasmesso il 21 marzo 2014 su Quattro Colonne SGRT News – testata della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.

Il Premio, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, è rivolto ai giovani impegnati nella professione (sotto i 35 anni) per incoraggiare un giornalismo libero, innovativo e di qualità. 

Il tema della Settima Edizione era: “Verde, Bianco e ROSA? L’Italia delle donne”. Dacia Maraini è stato Giurato speciale per l’Edizione 2014. 

di Alessandra Borella e Cecilia Andrea Bacci

È dicembre. Seduta dietro la grata, il velo le nasconde la testa, i capelli, le orecchie. Quello che colpisce all’istante osservando il suo volto incorniciato, è la pelle rosea e luminosa che non ne tradisce l’età. Sembra una ragazza di vent’anni. Slanciata, bella. È una donna che ne ha compiuti quaranta pochi giorni fa. Si chiama Sara. Non un filo di trucco, i suoi occhi sono dolcissimi. È la Madre Abbadessa del convento.

Madre Sara, la badessa del monastero di Sant'Agnese

Madre Sara, la badessa del monastero di Sant’Agnese

È lei che deciderà se farci entrare. Io e Cecilia abbiamo deciso di raccontare la clausura. Sarà il tema del nostro reportage. Questa curiosità, così lontana dalla nostra vita personale e professionale, ci trova in sintonia. Molte telefonate, un solo “sì” ad accordarci un appuntamento di persona. Quello del monastero delle clarisse di Sant’Agnese, nel centro storico di Perugia. Si trova in corso Garibaldi, dove ci sono tre conventi in 200 metri: clarisse, benedettine e domenicane.

Quello delle clarisse è noto alla comunità anche perché custodisce un prezioso dipinto del Perugino, la “Madonna delle Grazie con santi”, conosciuto come “Madonna Immacolata” negli archivi del monastero.

Papa Leone XIII concesse una dispensa dalla clausura, nella zona che va dall’esterno al corridoio che porta dentro la cappella di sant’Agnese, dov’è custodito il Perugino. Le monache riebbero il monastero dal demanio in cambio dell’impegno a fare da guide a chi volesse visitare il quadro. Ed è tuttora così, dal primo decennio del Novecento.

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L’ingresso del monastero

Salendo la stradina che porta alla piazzetta dove sorge il palazzo, si respira un’atmosfera mistica. Sarà per il silenzio straniante, cui non siamo abituate. Un’oasi di pace, nel cuore della città.

La prima volta che entriamo nel refettorio, non è Sara ad accoglierci. La luce filtra fioca da una sola finestra. Si gela. I minuti di attesa sono interminabili. Una luce si accende, un rumore sottile di passi si avvicina. Entra Mariachiara. È minuta, eppure sprigiona una forza che invade la stanza. Incute timore. È la prima suora di clausura che vediamo. Finora, ne avevamo solo sentito parlare. Ci stringe le mani, gesto che faranno tutte, sempre. Ci invita ad accomodarci, siamo tese. Due ore di colloquio. Ci scruta, dietro le lenti spesse degli occhiali. Ci interroga sul progetto, con una placida ma autorevole solennità.

In quei momenti non ci saremmo mai immaginate che proprio Mariachiara ci avrebbe guidato all’interno, con i suoi passetti rapidi e scattanti, costringendoci ad un inseguimento serrato con le telecamere e i fili del microfono, che dalla sua veste alle nostre mani si incastrano ovunque. Reggerà il cavalletto, raccontando senza sosta la storia di quei luoghi, come una vera “producer”, così come l’abbiamo ribattezzata scherzosamente in seguito. È stata lei la nostra prima sostenitrice. Ci ha dato fiducia ed è bastato un suo sguardo primaverile e materno, dietro la grata, con il montaggio finale mostrato loro in anteprima sul nostro computer, per capire che non avevamo fallito nel desiderio di raccontarle fedelmente, senza tradirne lo spirito, senza violarne l’intimità.

In un mese di post-produzione, decine di ore di girato erano lì, davanti ai loro occhi, racchiuse in otto minuti. Mariachiara, Sara e poi Speranza e Agnese. Sono quattro delle quindici sorelle clarisse che ci hanno aperto le porte del monastero in cui vivono. Speranza è perugina, ha una laurea in scienze politiche. Ironizza sulla sua vocazione e il suo viso esplode in risate spontanee e contagiose. Agnese è calabrese, ha studiato legge. Quando risuona una voce squillante al di là delle pareti, è lei che ne sta combinando una delle sue. Si occupano dei ritiri spirituali nei quali ospitano i giovani (io e Cecilia comprese), curano il sito internet e rispondono assiduamente alle email.

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Sono seguiti numerosi colloqui dopo il primo con suor Mariachiara. Qualche messa e gli inviti ad assistere ai vespri (la preghiera della sera) e alle adorazioni eucaristiche. Alcuni accettati: né io, né Cecilia, abbiamo avuto timore di rimettere piede in una chiesa. Non avremmo potuto capire appieno la clausura senza partecipare, almeno in parte, al tempo delle preghiere, che scandisce la loro giornata. Non conta condividerle o recitarle.

Dentro la chiesetta adiacente al monastero, potevamo scorgere le nostre “ragazze”, dalla finestrella con la grata che si trova dietro l’altare: erano sedute sulle panche in legno del coro, dall’altra parte del muro. Avrei giurato di scorgere, più di qualche volta, malcelati sorrisi rivolti a me e Cecilia, sedute sui banchi con espressione seriosa (o, piuttosto, malcelata rassegnazione). Passano l’avvento e il Natale.

Solo a metà gennaio riceviamo la telefonata tanto attesa. “Vi faremo raccontare le nostre storie. Potrete entrare con la telecamera”. Il nostro progetto prende forma. Tutto ciò che è accaduto poi, lo raccontano le nostre immagini. Quasi tutto. Non raccontano l’abbraccio che ci ha unito, la prima volta che si è aperto il portone e ci siamo viste tutte quante, una di fronte all’altra, senza grata. O lo stupore quando ci siamo accorte dei loro piedi nudi dentro i sandali, in pieno inverno. O le risate fragorose, l’ironia, le prese in giro, quando io e Cecilia, incaponite su questioni tecniche, costringevamo le ignare e docili sorelle, di volta in volta soggetti dell’inquadratura, a estenuanti prove e rifacimenti.

Le immagini non raccontano le ore trascorse in loro compagnia, che non si contano. Il profumo delle pietanze in cucina, la polvere sulle pagine dei libri antichi, in biblioteca. Otto minuti sono giorni e giorni, sono ritagli di tempo, tra un vespro e l’altro, per loro, tra una lezione e l’altra, per noi. Sono le domeniche di febbraio. Sono ogni momento utile. Sono pranzi, sorrisi, racconti, confidenze. Sono ore di interviste a tu per tu.

Non ci siamo risparmiate domande scomode: volevamo raccontare la vita claustrale senza pregiudizi e senza indulgenze, dal loro rapporto con il corpo, alla maternità, all’amore. Da donne a donne.

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Non sapremo mai come vivono le altre settemila suore di clausura in Italia, ognuna con il suo ordine monastico, con le sue regole e la sua più o meno stretta osservanza. Abbiamo raccontato le storie di quattro monache, stralci della loro esistenza quotidiana, discreta e custodita con grazia. Non leggono i giornali, ma si concedono qualche film, proiettato su un lenzuolo bianco, nel salone sotterraneo che somiglia ad una grande taverna.

Quello che fanno per la comunità va oltre la preghiera; vivono di carità, ma non lesinano aiuto concreto, materiale e spirituale, ai bisognosi, che sia un piatto di pasta, o una parola di conforto. La loro scelta di fede resta incomprensibile alla ragione. Ma non si può restare insensibili dinanzi alla profondità di un incontro umano.

Oltre il mestiere, che ci ha portato a documentarlo, e oltre la grata, che le separa da noi, ma solo fisicamente. Dietro quella grata ci siamo io e Cecilia, inquadrate dall’interno della clausura all’inizio del nostro reportage. Siamo noi, nel mondo che spesso diventa una prigione a cielo aperto, ad essere indagate e interrogate da loro, rinchiuse e libere al tempo stesso. Credenti o no, la serenità che abita quel luogo, quei corpi e quelle menti, entra sotto la pelle. La si vive mettendo piede nella casa di Sara, Mariachiara, Speranza e Agnese. E’ calore. Il calore dell’accoglienza e dell’amicizia. Questo, no, le immagini non possono proprio raccontarlo.

Oltre la grata: la clausura ai tempi di internet

Oltre la grata: così abbiamo incontrato la clausura, ai tempi di internet

bacci_borella_sito Cecilia Andrea Bacci e Alessandra Borella

“Servizio ben realizzato, interessante e per certi versi sorprendente. Costruito su un’idea, con un taglio particolare e una cura insolita, ci offre le immagini inedite di donne che hanno fatto una scelta di vita diversa”.

E’ la motivazione della giuria della Settima Edizione del Premio dedicato alla memoria e all’impegno giornalistico di Gaspare Barbiellini Amidei vinto (nella sezione tv e radio) da Cecilia Andrea Bacci e Alessandra Borella, per il servizio video “Oltre la grata, la clausura al mondo d’oggi”, trasmesso il 21 marzo 2014 su Quattro Colonne SGRT News – testata della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.

Il Premio, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, è rivolto ai giovani impegnati nella professione (sotto i 35 anni) per incoraggiare un giornalismo libero, innovativo e di qualità. 

Il tema della Settima Edizione era: “Verde, Bianco e ROSA? L’Italia delle donne”. Dacia Maraini è stato Giurato speciale per l’Edizione 2014. 

di Alessandra Borella e Cecilia Andrea Bacci

È dicembre. Seduta dietro la grata, il velo le nasconde la testa, i capelli, le orecchie. Quello che colpisce all’istante osservando il suo volto incorniciato, è la pelle rosea e luminosa che non ne tradisce l’età. Sembra una ragazza di vent’anni. Slanciata, bella. È una donna che ne ha compiuti quaranta pochi giorni fa. Si chiama Sara. Non un filo di trucco, i suoi occhi sono dolcissimi. È la Madre Abbadessa del convento.

Madre Sara, la badessa del monastero di Sant'Agnese Madre Sara, la badessa del monastero di Sant’Agnese

È lei che deciderà se farci entrare. Io e Cecilia abbiamo deciso di raccontare la clausura. Sarà il tema del nostro reportage. Questa curiosità, così lontana dalla nostra vita personale e professionale, ci trova in sintonia. Molte telefonate, un solo “sì” ad accordarci un appuntamento di persona. Quello del monastero delle clarisse di Sant’Agnese, nel centro storico di Perugia. Si trova in corso Garibaldi, dove ci sono tre conventi in 200 metri: clarisse, benedettine e domenicane.

Quello delle clarisse è noto alla comunità anche perché custodisce un prezioso dipinto del Perugino, la “Madonna delle Grazie con santi”, conosciuto come “Madonna Immacolata” negli archivi del monastero.

Papa Leone XIII concesse una dispensa dalla clausura, nella zona che va dall’esterno al corridoio che porta dentro la cappella di sant’Agnese, dov’è custodito il Perugino. Le monache riebbero il monastero dal demanio in cambio dell’impegno a fare da guide a chi volesse visitare il quadro. Ed è tuttora così, dal primo decennio del Novecento.

ingresso_monastero L’ingresso del monastero

Salendo la stradina che porta alla piazzetta dove sorge il palazzo, si respira un’atmosfera mistica. Sarà per il silenzio straniante, cui non siamo abituate. Un’oasi di pace, nel cuore della città.

La prima volta che entriamo nel refettorio, non è Sara ad accoglierci. La luce filtra fioca da una sola finestra. Si gela. I minuti di attesa sono interminabili. Una luce si accende, un rumore sottile di passi si avvicina. Entra Mariachiara. È minuta, eppure sprigiona una forza che invade la stanza. Incute timore. È la prima suora di clausura che vediamo. Finora, ne avevamo solo sentito parlare. Ci stringe le mani, gesto che faranno tutte, sempre. Ci invita ad accomodarci, siamo tese. Due ore di colloquio. Ci scruta, dietro le lenti spesse degli occhiali. Ci interroga sul progetto, con una placida ma autorevole solennità.

In quei momenti non ci saremmo mai immaginate che proprio Mariachiara ci avrebbe guidato all’interno, con i suoi passetti rapidi e scattanti, costringendoci ad un inseguimento serrato con le telecamere e i fili del microfono, che dalla sua veste alle nostre mani si incastrano ovunque. Reggerà il cavalletto, raccontando senza sosta la storia di quei luoghi, come una vera “producer”, così come l’abbiamo ribattezzata scherzosamente in seguito. È stata lei la nostra prima sostenitrice. Ci ha dato fiducia ed è bastato un suo sguardo primaverile e materno, dietro la grata, con il montaggio finale mostrato loro in anteprima sul nostro computer, per capire che non avevamo fallito nel desiderio di raccontarle fedelmente, senza tradirne lo spirito, senza violarne l’intimità.

In un mese di post-produzione, decine di ore di girato erano lì, davanti ai loro occhi, racchiuse in otto minuti. Mariachiara, Sara e poi Speranza e Agnese. Sono quattro delle quindici sorelle clarisse che ci hanno aperto le porte del monastero in cui vivono. Speranza è perugina, ha una laurea in scienze politiche. Ironizza sulla sua vocazione e il suo viso esplode in risate spontanee e contagiose. Agnese è calabrese, ha studiato legge. Quando risuona una voce squillante al di là delle pareti, è lei che ne sta combinando una delle sue. Si occupano dei ritiri spirituali nei quali ospitano i giovani (io e Cecilia comprese), curano il sito internet e rispondono assiduamente alle email.

grata_clausura_santagnese

Sono seguiti numerosi colloqui dopo il primo con suor Mariachiara. Qualche messa e gli inviti ad assistere ai vespri (la preghiera della sera) e alle adorazioni eucaristiche. Alcuni accettati: né io, né Cecilia, abbiamo avuto timore di rimettere piede in una chiesa. Non avremmo potuto capire appieno la clausura senza partecipare, almeno in parte, al tempo delle preghiere, che scandisce la loro giornata. Non conta condividerle o recitarle.

Dentro la chiesetta adiacente al monastero, potevamo scorgere le nostre “ragazze”, dalla finestrella con la grata che si trova dietro l’altare: erano sedute sulle panche in legno del coro, dall’altra parte del muro. Avrei giurato di scorgere, più di qualche volta, malcelati sorrisi rivolti a me e Cecilia, sedute sui banchi con espressione seriosa (o, piuttosto, malcelata rassegnazione). Passano l’avvento e il Natale.

Solo a metà gennaio riceviamo la telefonata tanto attesa. “Vi faremo raccontare le nostre storie. Potrete entrare con la telecamera”. Il nostro progetto prende forma. Tutto ciò che è accaduto poi, lo raccontano le nostre immagini. Quasi tutto. Non raccontano l’abbraccio che ci ha unito, la prima volta che si è aperto il portone e ci siamo viste tutte quante, una di fronte all’altra, senza grata. O lo stupore quando ci siamo accorte dei loro piedi nudi dentro i sandali, in pieno inverno. O le risate fragorose, l’ironia, le prese in giro, quando io e Cecilia, incaponite su questioni tecniche, costringevamo le ignare e docili sorelle, di volta in volta soggetti dell’inquadratura, a estenuanti prove e rifacimenti.

Le immagini non raccontano le ore trascorse in loro compagnia, che non si contano. Il profumo delle pietanze in cucina, la polvere sulle pagine dei libri antichi, in biblioteca. Otto minuti sono giorni e giorni, sono ritagli di tempo, tra un vespro e l’altro, per loro, tra una lezione e l’altra, per noi. Sono le domeniche di febbraio. Sono ogni momento utile. Sono pranzi, sorrisi, racconti, confidenze. Sono ore di interviste a tu per tu.

Non ci siamo risparmiate domande scomode: volevamo raccontare la vita claustrale senza pregiudizi e senza indulgenze, dal loro rapporto con il corpo, alla maternità, all’amore. Da donne a donne.

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Non sapremo mai come vivono le altre settemila suore di clausura in Italia, ognuna con il suo ordine monastico, con le sue regole e la sua più o meno stretta osservanza. Abbiamo raccontato le storie di quattro monache, stralci della loro esistenza quotidiana, discreta e custodita con grazia. Non leggono i giornali, ma si concedono qualche film, proiettato su un lenzuolo bianco, nel salone sotterraneo che somiglia ad una grande taverna.

Quello che fanno per la comunità va oltre la preghiera; vivono di carità, ma non lesinano aiuto concreto, materiale e spirituale, ai bisognosi, che sia un piatto di pasta, o una parola di conforto. La loro scelta di fede resta incomprensibile alla ragione. Ma non si può restare insensibili dinanzi alla profondità di un incontro umano.

Oltre il mestiere, che ci ha portato a documentarlo, e oltre la grata, che le separa da noi, ma solo fisicamente. Dietro quella grata ci siamo io e Cecilia, inquadrate dall’interno della clausura all’inizio del nostro reportage. Siamo noi, nel mondo che spesso diventa una prigione a cielo aperto, ad essere indagate e interrogate da loro, rinchiuse e libere al tempo stesso. Credenti o no, la serenità che abita quel luogo, quei corpi e quelle menti, entra sotto la pelle. La si vive mettendo piede nella casa di Sara, Mariachiara, Speranza e Agnese. E’ calore. Il calore dell’accoglienza e dell’amicizia. Questo, no, le immagini non possono proprio raccontarlo.

Una scritta: Press. E una lunga scia di sangue

andy_rocchelliOgni volta che si spara a un giornalista il racconto di un pezzo di mondo scompare. Andy Rocchelli, il fotoreporter piacentino di 30 anni ucciso la notte del 24 maggio in Ucraina, stava lavorando a una storia: le cantine usate come bunker dalla popolazione civile. Se non ci fosse stato lui nessuno di noi avrebbe visto quelle immagini di bambini raccolti in silenzio nel buio di uno scantinato. Nessuno conoscerebbe quella storia. Ma il suo racconto è stato bruscamente interrotto.

Ora conosciamo quel piccolo frammento di mondo, ma chissà cosa non conosceremo mai a causa della sua morte e di quella di tanti altri giornalisti. Andy e il suo interprete, Andrey Mironov, sono stati uccisi da un colpo di mortaio alle porte di Sloviansk. Viaggiavano in macchina nel mezzo della lotta armata tra filorussi ed esercito ucraino a Donetsk, nella regione più calda del conflitto. Non si sa ancora chi abbia aperto il fuoco sul convoglio. Ne tantomeno perché. Rocchelli era un fotografo esperto e potrebbe essere rimasto vittima di un tiro incrociato. Oppure può esser stato colpito deliberatamente. Nell’est Ucraina ormai è caccia ai giornalisti.

Succede sempre così nelle zone in cui la lotta per il potere si fa violenta, spietata, siano esse zone di guerra o di spartizione tra gang criminali. Dove l’opacità degli affari non tollera la visione trasparente di uno sguardo esterno, di un giornalista, che cerca di dare voce alle parti in campo ma soprattutto alla popolazione. E in questa guerra alla stampa, che non conosce razza, religione o sesso, il dato più inquietante è quello relativo all’impunita dei delitti. Chi negli ultimi anni ha ucciso un giornalista o un operatore della comunicazione è stato punito solo in un caso su dieci, secondo i dati raccolti dall’UNESCO.

Una storia di impunità che purtroppo anche il nostro paese conosce bene. Basti pensare ai casi di Graziella De Palo o Ilaria Alpi. Nessun mandante è stato ancora trovato per la loro morte e spesso il colpevole designato dalla giustizia nasconde verità più complesse. Solo dopo 20 anni si è deciso finalmente di desecretare le carte dei servizi segreti relativi all’omicidio Di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, avvenuto nel 1994 in Somalia. La giornalista del Tg3 stava indagando su traffici illegali di armi e rifiuti tossici. Una pista totalmente confermata dai documenti recentemente rivelati, che a pochi mesi dal delitto già sembravano indicare i possibili responsabili. Una pista che però si è poi insabbiata per anni nei meandri di una fitta rete di collusione e silenzi, con una giustizia lontana e a volte beffarda.

Secondo il Commitee to protect journalist (CPJ), solo nel 2013 sono stati uccisi 71 giornalisti. In Siria 28, 10 in Iraq, 6 in Egitto. Il resto tra Afghanistan, Turchia, Pakistan, Somalia, India e Brasile. Nel complesso i due terzi dei giornalisti sono stati uccisi in Medio Oriente, la restante parte in America Latina. Il dato è in linea, anzi in leggero calo, rispetto a quelli degli anni precedenti, ma non può lasciare indifferente chi ancora crede nella libertà dell’informazione e nell’importanza di testimoniare le atrocità della guerra.

Dal 1992, sempre secondo il CPJ, sarebbero almeno 71, ricorre questo numero, le reporter donne uccise. Ma a morire sul campo per raccontare la libertà non sono solo giornalisti ma anche tanti cameraman, netizens e citizen journalists. La libertà ha un prezzo che alcuni regimi non vogliono permettersi di pagare.

Dietro i numeri ci sono i volti, la passione e un grande entusiasmo. A volte senza esperienza, a causa della giovane età. Ahmed Assem el-Senousy aveva 26 anni e lavorava per il quotidiano egiziano Al-Horia wa Al-Adala. L’8 luglio dello scorso anno era in piazza per raccontare gli scontri tra i manifestanti e i sostenitori del presidente Morsi. Quando ci si trova in mezzo a migliaia di persone il giornalista corre gli stessi rischi di chi è intorno a lui, non c’è niente a proteggerlo. Quel giorno Ahmed subì la stessa sorte di altre cinquanta persone, tutti uccisi dai colpi dei cecchini. La stessa età aveva Camille Lepage, una coraggiosa fotoreporter francese freelance.«Ci vorranno otto ore di moto perché qui non ci sono strade», scriveva su Twitter pochi giorni prima di essere uccisa, il 13 maggio, in Repubblica Centrafricana. Era andata a raccontare quei delitti di una guerra lontana che non fa più notizia.

Guerre dimenticate. Guerre che durano da troppo tempo. Anja Niedringhaus conosceva bene l’Afghanistan. Lo raccontava da anni e si apprestava a seguire le attese elezioni presidenziali del paese. «Quando vedevo il suo caschetto di capelli bianchi in mezzo alla folla, con in mano la sua macchina fotografica, allora capivo di essere nel posto giusto. Dove c’era lei, c’era la notizia»: così la ricorda Lucia Goracci, inviata di Rainews24. Ma la fotografa dell’Associated Press, premio Pulitzer, è diventata l’ennesima vittima di un paese al collasso ed è stata uccisa nella provincia di Khost, vicino al confine con il Pakistan. A sparare una guardia armata afgana. Solo poche settimane prima erano morti a Kabul il giornalista svedese Nils Horner e l’afghano Sardar Ahmad.

Era il 19 novembre del 2001 quando Maria Grazia Cutuli, inviata del Corriere della Sera, stava percorrendo la strada che da Jalalabad porta a Kabul. Stava seguendo una notizia, la più importante dell’anno per un’inviata: la caduta del regime dei talebani. Un agguato, la fine. È stata giustiziata, insieme all’inviato di El Mundo Julio Fuentes e a due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari.

A volte però non serve partire, la guerra può essere nel tuo paese, a casa tua. Era in casa Regina Martinez Perez quando è stata uccisa, a Vera Cruz, in Messico, uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti. Nella sua ultima settimana, di lavoro e di vita, era immersa in un’inchiesta sui Los Zetas, un potente cartello del narcotraffico. Era il 28 aprile del 2012. Solo nel mese di maggio moriranno poi altri sei giornalisti. L’ultimo caso noto è quello di Gregorio Jimenez, sempre a Veracruz nel febbraio di quest’anno. La porta di casa sua, invece, Anna Politovskaya non l’ha più aperta. Era in ascensore quando un killer l’ha freddata con quattro proiettili, il 7 ottobre 2006, per le sue denunce sulle violenze in Cecenia. Lei e tanti altri suoi colleghi del giornale Novaya Gazeta erano in prima linea con inchieste scomode al potere ed hanno pagato con la vita la loro dedizione.

Ma cosa unisce queste persone così lontane, così diverse, vittime di una guerra senza confine al libero pensiero e alla libera informazione? L’indipendenza intellettuale, la libertà e il mestiere di raccontare, attraverso il testo o le immagini. Ma come vivono i giornalisti il loro rapporto con la paura? Come una compagna imprescindibile e a volte preziosa della loro vita.

«Quando l’ho visto steso sul piano di metallo dell’ospedale, che non respirava, che era bianco, mi ha fatto effetto, perché è la prova che quello che tu temi è reale. Può succedere anche a te». Steso su quel piano di metallo c’era Raffaele Ciriello, fotografo italiano ucciso a Ramallah, in Palestina, nel 2008. A parlare è Pier Paolo Cito, un suo collega e amico con una lunga esperienza di giornalismo di guerra: Afghanistan, Siria, Kosovo, striscia di Gaza sono alcune delle zone in cui ha visto morire civili, ma anche giornalisti. «Facciamo questo lavoro ma pensiamo che non succederà a noi. Non vai lì a fare il martire». E certo non erano andati a fare i martiri Ghislaine Dupont e Claude Verlon, inviati di Radio France International, rapiti ed uccisi a Kidal, in Mali, lo scorso 2 novembre. Sapevano di correre dei rischi, ma hanno deciso comunque di andare ad intervistare il capo tuareg Ambery Ag Rhissa, leader del movimento per l’indipendenza del Mali settentrionale. Cinque pallottole hanno fermato le loro parole.

A questo punto verrebbe da chiedersi: può davvero valere la pena sacrificare la propria vita per una missione? Immaginava questa domanda anche Marie Colvin, la reporter statunitense uccisa in Siria il 22 febbraio 2012. In un discorso tenuto nel 2010 alla St. Bride’s church a Londra aveva risposto così: «Molti di voi ora si staranno chiedendo: vale davvero la pena? Possiamo davvero fare la differenza? Ho affrontato questa domanda quando sono stata ferita in un’imboscata, in Sri Lanka. La mia risposta oggi come allora è: si, ne vale la pena. All’epoca dei blog, di Twitter, di Internet, siamo in contatto costante. Ma il giornalismo di guerra è rimasto più o meno lo stesso: qualcuno deve andare lì e vedere cosa sta succedendo. La vera difficoltà è avere abbastanza fiducia nell’umanità da credere che i governi, l’esercito o l’uomo della strada avranno interesse a leggere quello che hai scritto, per la stampa, la televisione, o il web. Noi abbiamo questa fiducia. E pensiamo di poter fare la differenza».

Jacob, un fotogiornalista a piazza Maidan

“Se a dicembre quello che mi aveva attratto era stata la totale partecipazione delle persone, la grande speranza che le cose potessero cambiare, quando sono tornato a febbraio la situazione era completamente diversa, tesa. Tutti i dimostranti, a quel punto, andavano in giro col passamontagna, il giubbotto antiproiettile. L’entusiasmo lasciava spazio alla vocazione al martirio”.

di Laura Aguzzi

Assistere alla Storia, quella con la s maiuscola, mentre avviene. Osservare l’innescarsi degli eventi, i cambiamenti, le emozioni e le delusioni di una nazione in lotta con il proprio destino. Può succedere, quando si è reporter di professione. Ma con i tempi della produzione mediatica odierna le permanenze si accorciano, l’esperienza umana viene meno, anche quando si coprono eventi di grande rilievo internazionale e di lunga durata. Si arriva in un posto e si fa una cronaca sulla base di quegli elementi che si riescono a trovare nei pochi giorni, a volte nelle poche ore, di permanenza. In mezzo a questo scenario, in cui i grandi reportage che hanno reso famosi giornalisti come Kapuściński, Fallaci o Terzani sarebbero oggi impossibili da realizzare, c’è ancora chi prova a fare questo mestiere in maniera diversa. Certamente con difficoltà e precarietà. Ma scegliendo di raccontare la complessità, aldilà delle immagini riprese a livello globale, che troppo spesso nascondono i volti degli individui dietro quelli della massa.

Jacob Balzani Lööv

Jacob Balzani Lööv – Credits: Amin Musa

Jacob Balzani Lööv, fotogiornalista e scrittore, ha osservato la rivoluzione ucraina fin dal suo incipit. In quest’intervista, realizzata mentre si trovava a Kiev a fine marzo, ci racconta cosa ha visto e che impressione ha ora di un paese sull’orlo di una guerra civile. Jacob tu hai avuto modo di seguire gli avvenimenti in Ucraina a più riprese fin da novembre. Qual è stata l’impressione che hai avuto quando sei andato lì la prima volta? La prima manifestazione che ho visto era molto pacifica e in buona parte era anche depoliticizzata. C’erano molti studenti e poteva sembrare una nostra manifestazione in Italia. C’era un grosso supporto della popolazione ma non sembrava paragonabile a quello della Rivoluzione Arancione del 2004. Quando ho lasciato Kiev pensavo che sarebbe finita lì. Invece era solo l’inizio. Quando è iniziata a cambiare la protesta? Il fattore scatenante è stato il pestaggio degli studenti a piazza Maidan, proprio sotto la colonna, la notte del 30 novembre. È stato questo che ha fatto arrivare gran parte della gente in piazza e li ha fatti arrivare per rimanere. Se all’inizio si chiedeva solo una ristrutturazione del trattato di collaborazione con l’Unione Europea, da lì in poi si è iniziato a chiedere le dimissioni del presidente Viktor Yanukovych. Diversi gruppi sono arrivati in piazza, anche tante persone con un’esperienza militare, ad esempio veterani dell’Afghanistan o addirittura dell’Angola.

Tre giovani scherzano all'interno dell palazzo occupato delle "Trade Union"

Tre giovani del 14emo gruppo di auto-difesa di Maidan scherzano nella Casa dell’Architettura

Com’era stare in piazza in quei giorni? La cosa bella di essere in piazza all’inizio di dicembre era vedere la spontaneità, la voglia di tutte le persone di poter dare il loro contributo verso il successo di Euromaidan. C’era una grande partecipazione. Fino al giorno in cui Yanukovych ha accettato questo patto con la Russia per ricevere 35 miliardi di dollari. È stato allora che ho visto la maggior parte delle persone perdere la speranza che si potesse raggiungere un risultato. E quindi si è radicalizzato il confronto? È diventato più politicizzato. Più le persone decidevano di rimanere in piazza più perdevano il loro posto di lavoro e c’era una forte paura che il governo avrebbe perseguitato chiunque continuasse a manifestare. E questo piano piano si è amplificato fino a quando in gennaio il governo ha fatto varare una serie di leggi contro chiunque si trovasse in piazza. A quel punto sono arrivati gli scontri di Hrushevskoho Street, dove sono stati uccisi i primi manifestanti.

Dimostranti in via Instituzkaya, sotto l'hotel Ucraina, aiutano nonostante la presenza di cecchini a spostare la pavimentazione di piazza Indipendenza per costruire muri di difesa

Nonostante la presenza di cecchini i dimostranti, sotto il Palazzo d’Ottobre, collaborano per costruire muri di difesa via Instituzkaya

Il giorno dei cecchini tu eri in piazza, cos’hai visto? Quello che mi ha colpito di quel giorno che poi è stato anche quello che ho fotografato è stata questa partecipazione collettiva, quasi un evento biblico. C’era il pericolo che sparassero ad altre persone, nessuno sapeva dove fossero i cecchini e nonostante questo la piazza era piena, tutti si davano da fare per spostare le pietre e trasportarle nella piazza dove stavano costruendo dei muri, c’era una catena umana di persone e vedevi questi muri ergersi quasi in tempo reale davanti ai tuoi occhi. Tu che impressione hai avuto della copertura che i media italiani e stranieri hanno dato della rivoluzione? Non c’è stata subito una grande attenzione, soprattutto nella parte più pacifica della rivoluzione, che secondo me era anche la più bella. La gran parte dell’attenzione è arrivata dopo gli scontri in Hrushevskoho Street e poi quando molti manifestanti sono stati uccisi dai cecchini. E sei riuscito a capire un po’ qual è stata la copertura da parte dei media ucraini? Qui in Ucraina, la lotta è stata giocata tantissimo dai media fin dall’inizio. Prima erano le televisioni di Yanukovych contro le televisioni non di Yanukovych. Adesso sono le televisioni russe contro le televisioni ucraine. Poi, oltre alle grandi reti, ci sono anche tanti media locali. Da questo punto di vista penso che la rivoluzione sia stata coperta in maniera eccezionale. C’era tantissima gente sempre a filmare qualsiasi cosa succedesse: c’è una registrazione di tutto quello che è accaduto. Io sono stato ospite di due professori ucraini e loro guardavano ininterrottamente sul computer in streaming tutto quello che accadeva in piazza, che veniva passato ininterrottamente da novembre fino alla fine e ancora adesso. Certo c’era una grande differenza tra le notizie di Kiev e quello che dalla capitale arrivava verso le campagne. Ed è anche per questo che ho deciso di andare nell’est dell’Ucraina: per capire cosa filtrasse, quale fosse la partecipazione nel villaggio della prima vittima da arma da fuoco delle manifestazioni, Serhiy Nigoyan. Chi era quest’uomo? Serhiy Nigoyan era uno studente. Aveva 20 anni ed era di origini armene. I genitori erano scappati dall’Armenia nel 1991 durante il conflitto del Nagorno-Karabakh e si erano trasferiti in Ucraina, in questa regione prevalentemente agricola. Tu sei andato a casa sua… Si, sono andato a Bereznuvativka, il suo piccolo paese. È vicino a Dnipropetrovsk, la campagna ucraina, a 500 km da Kiev. Si tratta di una di queste città segrete in cui era molto difficile avere accesso ai tempi dell’Urss, perché lì venivano costruite testate nucleari. E lui è venuto dall’est dell’Ucraina per manifestare contro il governo di Yanukovych? È venuto in piazza dopo il pestaggio degli studenti da parte delle forze speciali di polizia. Come tanti non poteva più restare a vedere quello che succedeva in televisione ma doveva prendere una posizione attiva. Per cui ha deciso di venire in piazza ed è rimasto quasi tutto il tempo a manifestare; è tornato a casa solo per un breve periodo, durante il capodanno ortodosso.

Un cantante intrattiene una dimostrazione a supporto del partito di  Yanukovich a Dnepropetrovsk

Un cantante intrattiene una dimostrazione a supporto del partito di Yanukovych a Dnipropretovsk

Ti sei accorto che nell’est dell’Ucraina c’era una realtà diversa rispetto a Kiev? L’est dell’Ucraina è piuttosto vasto. Oltre alla Crimea, che è particolarmente filorussa, ci sono anche le regioni di Donetsk che hanno sempre supportato Yanukovych. L’Ucraina dell’est è molto più industrializzata, essenzialmente perché lì c’erano giacimenti di carbone e sono state costruite fabbriche anche prima dell’invasione sovietica. Quest’industrializzazione è poi aumentata, trasformando quest’area in una zona di immigrazione dal resto del paese, prevalentemente rurale e quindi più povero. Nel mio viaggio ad est ho cercato di incontrare persone che la pensassero diversamente dai manifestanti, persone che supportassero Yanukovych e ho scoperto che la realtà è complessa. Ci sono persone che supportano il Partito delle Regioni (ndr quello di Yanukovych) perché garantisce maggiore stabilità al paese. Oppure ci sono tante altre persone che, pur in disaccordo con il governo, sono contrari all’occupazione della piazza: secondo loro si sarebbero dovute aspettare le prossime elezioni per cambiare il potere. E le accuse piovute da molti media? In molti hanno detto che le manifestazioni si stessero trasformando in un movimento fascista, razzista? Cosa ti è sembrato di questo racconto? Cercare di far passare questa dimostrazione come una manifestazione fascista o neonazista è stato fatto soprattutto dai media russi e più tardi da altri media occidentali. A dire il vero croci celtiche e simboli neofascisti io ne ho visti fin dall’inizio. In effetti, quello che ha tenuto insieme questi gruppi nella piazza è stato il nazionalismo. Ma il fatto di essere nazionalisti non significa automaticamente essere di destra, perché ci sono dei gruppi che sono riconosciuti come nazionalisti di sinistra, penso ad esempio all’ETA nei Paesi Bassi o Sinn Féin in Irlanda. Mi è sembrato che la composizione della piazza venisse trattata in modo abbastanza superficiale. Gruppi di destra ci sono, gruppi neonazisti ci sono. Ma è una piccola parte della piazza. Per la maggioranza delle persone con cui ho parlato non sono loro il problema principale, quanto piuttosto il rischio di invasione da parte della Russia. Solo in secondo luogo c’è la preoccupazione di riuscire a inquadrare questi gruppi di estrema destra, che hanno preso delle posizioni di potere nel governo. Qual è stata la reazione all’occupazione della Crimea? La vogliono indietro? No, però c’è paura che succeda qualcosa nell’est dell’Ucraina. Tutta l’attenzione, quella che doveva essere per la lotta alla corruzione, per costruire un governo migliore e per entrare in Europa è stata depistata verso la guerra. Tutti adesso pensano esclusivamente alla possibilità che si entri in guerra e tutte le decisioni di politica interna sono state lasciate un po’ da parte in questo momento, il che, vista la situazione economica dell’Ucraina, non è un fatto positivo.

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Reclute della guardia nazionale, facenti parte dei gruppi di autodifesa di Maidan, si allenano a Novvi Petrivsi

Tu hai seguito un gruppo di ragazzi e la loro esperienza della rivoluzione. Com’è il clima adesso tra di loro, cosa si aspettano? Ho seguito un gruppo di ragazzi che sta formando un gruppo di autodifesa: frequentano un corso nella guardia nazionale e imparano a usare per la prima volta delle armi vere. In tanti sono pronti a condurre una guerra partigiana nel caso in cui ci sia un’invasione dell’Ucraina da parte della Russia…niente di molto promettente! Quanti anni hanno questi ragazzi? Ci sono delle donne? I ragazzi che fanno il corso per la guardia nazionale sono per lo più uomini. La maggior parte ha vent’anni adesso: è la prima generazione nata al di fuori dell’Unione Sovietica, in uno stato ucraino indipendente. Sono le prime persone che crescono in Ucraina senza ricevere un’istruzione di tipo sovietico. Ma stando sul campo hai avuto l’impressione che la protesta fosse manovrata? Dal campo è difficile da vedere! Io posso dire se le persone erano spontanee in quello che facevano e certamente lo erano e lo sono ancora! Però indubbiamente c’è sempre qualcuno che cerca di trarre vantaggio dalla situazione, cerca di manovrare a proprio favore quello che sta succedendo. E tu come cerchi di raccontarlo il conflitto? Io ho sempre cercato di raccontarlo dal punto di vista delle persone, di trasmettere l’emotività e la partecipazione che c’era all’interno della piazza. Un giorno a un picchetto di una stazione televisiva ho incontrato una ragazza con un passamontagna: si vedeva solo questa treccia rossa che usciva sotto il berretto, lo smalto rosso sulle unghie. Le ho chiesto se potevo intervistarla il giorno dopo e lei il giorno seguente è arrivata vestita da studentessa, con dei vestiti normalissimi: non sarei riuscito a riconoscerla! Parlando abbiamo discusso delle differenze tra le proteste di dicembre e di febbraio: io le raccontavo il mio stupore di fronte al cambiamento e lei mi confermava che l’entusiasmo e la voglia di cambiamento c’erano ancora ma bisognava ormai cercarle sotto i passamontagna. È un’idea che continuo a coltivare, perché voglio vedere come sia possibile il passaggio da un tipo di dimostrazione pacifica a un tipo di dimostrazione violenta, in cui questi ragazzi hanno iniziato a coprirsi il volto, indossare un giubbotto antiproiettile e andare in giro armati con dei bastoni.

Dal nostro “wanted” a Lisbona

di Dennis Redmont

redmontLa mia prima esperienza da corrispondente estero per l’AP è iniziata nel 1965 a Lisbona, in Portogallo. Ero il più giovane corrispondente nella storia dell’AP, e mi trovavo nel paese guidato dal dittatore Antonio de Oliveira Salazar, un economista ininterrottamente al potere dal 1932 che aveva teorizzato l’“Estado Novo”, ossia ladeclinazione portoghese del fascismo di Benito Mussolini.

Come in tutte le dittature che si rispettino, la stampa era sottoposta a una ferrea censura. Non è un caso, dunque, che l’opposizione e il movimento studentesco anti-dittatura leggessero la stampa straniera per informarsi su quello che realmente accadeva nel paese.

Il 28 febbraio 1966 Le Monde pubblica un mio lancio d’agenzia scritto per AFP-AP. Il pezzo parla di due studenti arrestati per attività sovversiva a Lisbona e ricoverati in ospedale in gravi condizioni, probabilmente a seguito di un pestaggio delle forze dell’ordine. Uno degli studenti è Maria Antonetta Coelho, 19 anni, che avrebbe ingerito pezzi di vetro in un presunto tentativo di suicidio. L’altro studente, il 24enne Ruy Despiney, ha una frattura vertebrale.

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Lisbona, murales dedicato a Fernando Pessoa

Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, mentre stavo tornando al mio ufficio in Praca da Alegria (Piazza della Felicità), incontrai i colleghi Marvine Howe del New York Times e l’italiano Aldo Trippini di United Press. “Andiamo a pranzo”, mi dissero. Declinai l’invito (avevo appena pranzato), ma i due insistettero: a quel punto capii che dovevano dirmi qualcosa di delicato.

Non appena svoltammo l’angolo del palazzo, i colleghi mi riferirono che otto agenti della temibile Policia Internacional de Defesa Do Estado (PIDE) mi stavano cercando e che erano già saliti in ufficio chiedendo dove fossi. Fortunatamente, gli agenti non sapevano che aspetto avessi. Io, però, sapevo che da polizia politica del genere non ci si poteva aspettare nulla di buono.

Il PIDE era un corpo di polizia molto detestato in Portogallo, e veniva ripetutamente indicato come il responsabile di torture, uccisioni e sparizioni di attivisti. Oltre alle attività nazionali, il PIDE operava anche nelle colonie portoghesi (Angola, Mozambico, Guinea, Capo Verde, ecc.), dove gruppi di ribelli si stavano rivoltando contro il governo di Lisbona con il supporto del blocco sovietico.

In tutto ciò, un sistema di censura capillare impediva che uscissero notizie sulle guerre coloniali e sulle attività dell’opposizione. A volte le bozze degli articoli dovevano essere spediti alla polizia per l’approvazione, e spesso e volentieri i censori erano fisicamente all’interno delle redazioni dei giornali portoghesi per intimidire i giornalisti.

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Lisbona, la sede del PIDE

Questa convocazione del PIDE, tuttavia, era tutta un’altra storia rispetto ai “richiami” ufficiali. Dopo aver contattato l’ambasciatore americano in Portogallo, George W. Anderson, quest’ultimo mi invitò a passare una notte in ambasciata a puro titolo precauzionale. Il ministro degli esteri portoghese, infatti, aveva fatto allusioni all’ambasciatore Anderson sulla mia presunta “colpevolezza”, e aveva anche aggiunto in tono vagamente minaccioso di non poter garantire la mia incolumità fisica una volta che il PIDE fosse riuscito a trovarmi.

Il mattino successivo, accompagnato da un funzionario del consolato, mi recai spontaneamente al quartier generale del PIDE, situato in Rua Antonio Maria Cardoso. L’edificio – stando ai racconti di militanti comunisti/socialisti e degli studenti – era un vero e proprio centro di tortura, sia fisica che psicologica. Avevo sentito i loro racconti durante le mie visite al “Tribunal da Boa Hora”, che mi servivano a capire in che condizioni operava un’opposizione sotto una dittatura.

Non sapevo ancora che cosa gli agenti cercassero da me; e questo, unito al fatto che avevo passato una notte praticamente insonne, mi rendeva piuttosto nervoso. Una volta entrato nel quartier generale, venni portato in una stanza insonorizzata (le pareti erano ricoperte di un materiale simile a quello dei materassi) con un tavolo al centro e due agenti che mi stavano aspettando. Pensai che volessero mettermi in prigione con qualche accusa falsa o che, se tutto andava bene, sarei stato messo sul primo aereo disponibile e cacciato dal paese.

I due agenti utilizzarono subito la tattica del “poliziotto buono/poliziotto cattivo”, cercando di mettermi in difficoltà e sommergendomi di domande sulla mia vita privata. Ricordo distintamente una lampadina che pendeva dal soffitto e dei suoni attutiti che provenivano da qualche parte, probabilmente fatti apposta per rendermi ancora più nervoso.

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Rua Antonio Maria Cardoso, targa in memoria di vittime del PIDE

L’interrogatorio andò avanti per molte ore in una piccola stanza, con una processione costante di agenti del PIDE. Tra i poliziotti che mi facevano domande (molte erano sulla mia vita privata) riconobbi molti torturatori. A un certo punto ebbi anche “l’onore” di conoscere Antonio Silva Pais, il capo del PIDE, che non riusciva a capacitarsi di come i giornalisti stranieri – che erano trattati così bene dal governo portoghese – potessero scrivere articoli così critici sul paese. Pais non disse che le autorità portoghesi avevano abbandonato l’idea di espellermi – o di causarmi conseguenze più “spiacevoli”. Mi sembrò tuttavia di capire che la sua presenza non indicava la volontà di arrestarmi o espellermi dal paese.

Nel frattempo – ma non potevo saperlo all’epoca – anche il corrispondente dell’AFP, Pinto Basto, era sotto interrogatorio per lo stesso articolo. A differenza mia, però, Basto era stato direttamente arrestato. In carcere, il PIDE gli mostrò due persone “travestite” da studenti per dimostrare che non era successo nulla. Naturalmente, quelle due persone non erano i due studenti torturati.

Dopo l’incontro con Silva Pais fui lasciato libero di andarmene dal quartier generale del PIDE. Il motivo di questo “trattamento di favore” (si fa per dire) era probabilmente da ricercarsi nel fatto che il governo portoghese – in un momento in cui il supporto degli Stati Uniti e della Nato era cruciale alla sua sopravvivenza politica – non voleva ulteriormente inimicarsi la stampa straniera e il governo americano.

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Il dittatore portoghese Antonio De Oliveira Salazar

L’Angola, il Mozambico e la Guinea diventarono indipendenti solo verso la metà degli anni ’70, ma rimangono a tutto oggi profondamente segnate dalle lotte interne.

Nei mesi seguenti venni pedinato e controllato a vista da vari agenti che si trovavano nel palazzo in cui lavoravo. Ricevetti anche numerose lettere anonime (scritte, immagino, direttamente dal PIDE) con commenti a dir poco sgradevoli sulla mia vita privata e sulla mia attività professionale. Periodicamente la polizia politica mi convocava e chiedeva di compilare varie pratiche burocratiche: si trattava a tutti gli effetti di una forma nemmeno troppo implicita di intimidazione.

A seguito dell’“incidente” il capo-ufficio dell’AP a Madrid, Harold Milks, suggerì all’ufficio centrale dell’AP di New York di farmi trasferire con discrezione in un altro paese. Scrissi subito al presidente  della sede di New York che una simile decisione avrebbe creato un pericoloso precedente e che preferivo rimanere a Lisbona, anche senza scrivere nulla, per dimostrare che gli organi di stampa americani non si facevano mettere sotto pressione da nessun governo.

Il presidente mi diede ragione e mi suggerì di scrivere tutto quello che vedevo. Nell’estate del 1967, un anno dopo l’incontro ravvicinato con la polizia politica, venni trasferito a Roma per lavorare come corrispondente e inviato dall’Italia.

Nonostante nel corso della mia carriera sia stato in molte situazioni pericolose ed abbia avuto a che fare con dittature militari particolarmente feroci (come quella del Brasile e dell’Argentina negli anni ’70, ad esempio), ho sempre considerato il faccia a faccia con il PIDE una sorta di “battesimo di fuoco” nel mondo del giornalismo. All’epoca, infatti, avevo solo 23 anni ed era il mio primo incarico come corrispondente estero.

Quello che ho imparato da questa esperienza, e che ho sempre cercato di applicare nel corso della mia carriera, è di verificare rigorosamente le informazioni utilizzando più fonti, di cercare di rispettare le leggi locali per non essere falsamente accusato di qualcosa, di affidarsi ai colleghi e, infine, di prendere gli episodi spiacevoli con umorismo e leggerezza.

© Dennis Redmont 2014

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