Antonio Gramsci fu anche un grande giornalista. Prima del carcere tenne una rubrica sull’Avanti intitolata “Sotto la mole” e una regolare rubrica teatrale. Quegli scritti, che sono un esempio di scrittura e di brevità – e che Gramsci, come ogni buon giornalista, avrebbe voluto destinare al cestino dopo la pubblicazione -, sono stati raccolti da Einaudi nelle “Cronache torinesi” (con, in appendice, le cronache teatrali). I temi del giornalismo trovarono spazio anche negli anni della persecuzione fascista. Nei Quaderni del carcere, scritti tra il 1929 e il 1935, Gramsci se ne occupò più volte. Le questioni o, come le chiamava Gramsci, le “quistioni” risentono ovviamente delle generali condizioni in cui versava l’editoria dell’epoca (condizioni anche liberticide e drammatiche, con la censura) e, spesso, si tingono di ideologia e di pedagogia politica. Ma non sono affatto “datate”, conservano anzi una sorprendente attualità.
Gramsci, per esempio, demitizza la “praticaccia” e insiste sulla necessità di insegnare il “mestiere” nelle scuole di giornalismo, anche istituendole nelle stesse redazioni e aprendole a quella che allora, come oggi, veniva denominata “società civile”. Gramsci fissa anche il principio della competenza: un capocronista, dice, dovrebbe essere in grado di amministrare una città, come un corrispondente dall’estero, a differenza dell’inviato o (come lo chiama Gramsci) del “corrispondente viaggiante”, dovrebbe conoscere il paese che lo ospita al punto da poterne scriverne subito un libro.
Gramsci entra persino nei dettagli tecnici: detesta i titoli del tipo “brevi cenni sull’universo” e spinge per l’introduzione della divulgazione scientifica nei giornali. I brani che seguono sono tratti dai “Quaderni del carcere” nell’edizione critica dell’Istituto Gramsci pubblicata in quattro volumi da Einaudi.
di Antonio Gramsci
Scuole di giornalismo
Nella Nuova Antologia del 1° luglio 1928 è pubblicato, con questo titolo, un articolo di Ermanno Amicucci, che forse in seguito è stato pubblicato in volume con altri. L’articolo è interessante per le informazioni e gli spunti che offre. E’ da rilevare tuttavia che in Italia la quistione è molto più complessa da risolvere di quanto non paia leggendo questo articolo ed è da credere che i risultati delle iniziative scolastiche non possano essere molto grandi (almeno per ciò che riguarda il giornalismo tecnicamente inteso: le scuole di giornalismo saranno scuole di propaganda politica generale). Il principio, però, che il giornalismo debba essere insegnato e che non sia razionale lasciare che il giornalista si formi da sé, casualmente, attraverso la “praticaccia”, è vitale e si andrà sempre più imponendo, a mano a mano che il giornalismo, anche in Italia, diventerà un’industria più complessa e un organismo civile più responsabile. La quistione, in Italia, trova i suoi limiti nel fatto che non esistono grandi concentrazioni giornalistiche, per il decentramento della vita culturale nazionale, che i giornali sono molto pochi e la massa dei lettori è scarsa. Il personale giornalistico è molto limitato e quindi si alimenta attraverso le sue stesse gradazioni d’importanza: i giornali meno importanti (e i settimanali) servono da scuola per i giornali più importanti e reciprocamente. Un redattore di secondo ordine del Corriere diventa direttore o redattore capo di un giornale di provincia e un redattore rivelatosi di primo ordine in un giornale di provincia o in un settimanale, viene assorbito da un grande giornale ecc. Non esistono in Italia centri come Parigi, Londra, Berlino, ecc., che contano migliaia di giornalisti, costituenti una vera categoria professionale diffusa, economicamente importante; inoltre le retribuzioni in Italia, come media, sono molto basse. In alcuni paesi, come quelli tedeschi, il numero dei giornali che si pubblicano in tutto il paese è imponente, e alla concentrazione di Berlino corrisponde una vasta stratificazione in provincia.
Quistione dei corrispondenti locali, che raramente (solo per le grandi città e in generale per quelle dove si pubblicano settimanali importanti) possono essere giornalisti di professione.
Per certi tipi di giornale il problema della scuola professionale deve essere risolto nell’ambito della stessa redazione, trasformando o integrando le riunioni periodiche redazionali in scuole organiche di giornalismo, ad assistere alle cui lezioni dovrebbero essere invitati anche elementi estranei dalla redazione in senso stretto: giovani e studenti, fino ad assumere il carattere di vere scuole politico-giornalisti-che, con lezioni di argomenti generali (di storia, di economia, di diritto costituzionale, ecc.) affidate anche a estranei competenti e che sappiano investirsi dei bisogni del giornale.
Si dovrebbe partire dal principio che ogni redattore o reporter dovrebbe essere messo in grado di compilare e dirigere tutte le parti del giornale, così come, subito, ogni redattore dovrebbe acquistare le qualità di reporter, cioè dare tutta la sua attività al giornale, ecc.
A proposito del numero dei giornalisti italiani, l’Italia Letteraria del 24 agosto 1930 riferisce i dati di un censimento eseguito dalla Segreteria del Sindacato Nazionale dei giornalisti: al 30 giugno erano inscritti 1960 giornalisti dei quali 800 affiliati al Partito Fascista, così ripartiti: Sindacato di Bari, 30 e 26, Bologna 108 e 40, Firenze 108 e 43, Genova 113 e 39, Milano 348 e 143, Napoli 106 e 45, Palermo 50 e 17, Roma 716 e 259, Torino 144 e 59, Trieste 90 e 62, Venezia 147 e 59.
Capocronista e capocronaca
Difficoltà di creare dei buoni capi cronisti, cioè dei giornalisti tecnicamente preparati a comprendere ed analizzare la vita organica di una grande città, impostando in questo quadro (senza pedanteria, ma anche non superficialmente e senza “brillanti” improvvisazioni) ogni singolo problema mano mano che diventa attualità. Ciò che si dice del capocronista può estendersi a tutta una serie d’attività pubbliche: un buon capocronista dovrebbe avere la preparazione tecnica sufficiente e necessaria per diventare podestà o anche prefetto, o presidente (effettivo) di un Consiglio provinciale d’economia tipo attuale; e, dal punto di vista giornalistico, dovrebbe corrispondere al corrispondente locale di una grande città (e via via, in ordine di competenza e di ampiezza decrescente dei problemi, delle medie, piccole città e dei villaggi).
In generale, le funzioni di un giornale dovrebbero essere equiparate a corrispondenti funzioni dirigenti della vita amministrativa e da questo punto di vista dovrebbero essere impostate le scuole di giornalismo, se si vuole che tale professione esca dallo stadio primitivo e dilettantesco in cui oggi si trova, diventi qualificata e abbia una compiuta indipendenza, cioè il giornale sia in grado di offrire al pubblico informazioni e giudizi non legati a interessi particolari. Se un capocronista informa il pubblico “giornalisticamente”, come si dice, ciò significa che il capocronista accetta senza critica e senza giudizio indipendente informazioni e giudizi, attraverso interviste e tuyaux, di persone che intendono servirsi del giornale per promuovere determinati interessi particolari.
Dovrebbero esistere due tipi di capocronaca: 1) il tipo organico e 2) il tipo di più spiccata attualità. Col tipo organico, per dare un punto di vista comprensivo, dovrebbe essere possibile compilare dei volumi sugli aspetti più generali e costanti della vita di una città, dopo aver depurato gli articoli di quegli elementi d’attualità che devono esistere sempre in ogni pubblicazione giornalistica; ma per intendersi, in questi articoli “organici” l’elemento di attualità deve essere subordinato e non principale. Questi articoli organici perciò non devono essere molto frequenti. Il capocronista studia l’organismo urbano nel suo complesso e nella sua generalità, per avere la sua qualifica professionale (solo limitatamente, un capocronista può cambiare di città: la sua superiore qualifica non può non essere legata a una determinata città): i risultati originali, o utili in generale, di questo studio organico, è giusto che non siano completamente disinteressati, che non siano solo premessa, ma si manifestino anche immediatamente, cogliendo uno spunto di attualità. La verità è che il lavoro di un capocronista è altrettanto vasto di quello di un redattore capo, o di un caposervizio in una organizzazione giornalistica con divisione del lavoro organica. In una scuola di giornalismo occorrerebbe avere una serie di monografie su grandi città e sulla loro vita complessa. Il solo problema dell’approvvigionamento di una grande città è tale da assorbire molto lavoro e molta attività.
Corrispondenti dall’estero
Non si può fare a meno di collaboratori stranieri, ma anche la collaborazione straniera deve essere organica e non antologica e sporadica o casuale. Perché sia organica è necessario che i collaboratori stranieri, oltre a conoscere le correnti culturali del loro paese siano capaci di “confrontarle” con quelle del paese in cui la rivista è pubblicata, cioè conoscano le correnti culturali anche di questo e ne comprendano il “linguaggio” nazionale. La rivista pertanto (ossia il direttore della rivista) deve formare anche i suoi collaboratori stranieri per raggiungere l’organicità.
Nel Risorgimento ciò avvenne molto di rado e perciò la cultura italiana continuò a rimanere alquanto provinciale. Del resto una organicità di collaborazione internazionale si ebbe forse solo in Francia, perché la cultura francese, già prima dell’epoca liberale, aveva esercitato un’egemonia europea; erano quindi relativamente (numerosi) gli intellettuali tedeschi, inglesi, ecc. che sapevano informare sulla cultura del loro paese impiegando un “linguaggio” francese. Infatti non bastava che l’Antologia del Vieusseux pubblicasse articoli di “liberali” francesi o tedeschi o inglesi perché tali articoli potessero informare utilmente i liberali italiani, perché tali informazioni cioè potessero suscitare o rafforzare correnti ideologiche italiane: il pensiero rimaneva generico, astratto, cosmopolita. Sarebbe stato necessario suscitare collaboratori specializzati nella conoscenza dell’Italia, delle sue correnti intellettuali, dei suoi problemi, cioè collaboratori capaci di informare nello stesso tempo la Francia sull’Italia.
Tale tipo di collaboratore non esiste “spontaneamente”, deve essere suscitato e coltivato. A questo modo razionale di intendere la collaborazione si oppone la superstizione di avere tra i propri collaboratori esteri i capiscuola, i grandi teorici, ecc. Non si nega l’utilità (specialmente commerciale) di avere grandi firme. Ma dal punto di vista pratico di promuovere la cultura, è più importante il tipo di collaboratore affiatato con la rivista, che sa tradurre un mondo culturale nel linguaggio di un altro mondo culturale, perché sa trovare le somiglianze anche dove esse pare non esistano e sa trovare le differenze anche dove pare ci siano solo somiglianze ecc.
Il tipo del “corrispondente dall’estero” di un quotidiano è qualcosa di diverso, tuttavia alcune osservazioni dell’altra nota sono valide anche per questa attività. Intanto non bisogna concepire il corrispondente dall’estero come un puro reporter o trasmettitore di notizie del giorno per telegramma o per telefono, cioè una integrazione delle agenzie telegrafiche. Il tipo moderno più compiuto di corrispondente dall’estero è il pubblicista di partito, il critico politico che osserva e commenta le correnti politiche più vitali di un paese straniero e tende a diventare uno “specialista” sulle quistioni di quel dato paese (i grandi giornali perciò hanno “uffici di corrispondenza” nei diversi paesi, e il capo ufficio è lo “scrittore politico”, il direttore dell’ufficio). Il corrispondente dovrebbe mettersi in grado di scrivere, entro un tempo determinato, un libro sul paese dove è mandato per risiedervi permanentemente, un’opera completa su tutti gli aspetti vitali della sua vita nazionale ed internazionale. (Altro è il corrispondente viaggiante che va in un paese per informare su grandi avvenimenti immediati che vi si svolgono).
Criteri per la preparazione e la formazione di un corrispondente: 1) Giudicare gli avvenimenti nel quadro storico del paese stesso e non solo con riferimento al suo paese d’origine. Ciò significa che la posizione di un paese deve essere misurata dai progressi o regressi verificatisi in quel paese stesso e non può essere meccanicamente paragonata alla posizione di altri paesi nello stesso momento. Il paragone tra Stato e Stato ha importanza, perché misura la posizione relativa di ognuno di essi: infatti un paese può progredire, ma se in altri il progresso è stato maggiore o minore, la posizione relativa muta, e muta la influenza internazionale del paese dato. Se giudichiamo l’Inghilterra da ciò che essa era prima della guerra, e non da ciò che essa è oggi in confronto della Germania, il giudizio muta, sebbene anche il giudizio di paragone abbia grande importanza. 2) I partiti in ogni paese hanno un carattere nazionale, oltre che internazionale: il liberalismo inglese non è uguale a quello francese o a quello tedesco, sebbene ci sia molto in comune ecc. 3) Le giovani generazioni sono in lotta con le vecchie nella misura normale in cui i giovani sono in lotta coi vecchi, oppure i vecchi hanno un monopolio culturale divenuto artificiale o dannoso? I partiti rispondono ai problemi nuovi o sono superati e c’è crisi? ecc.
Ma l’errore più grande e più comune è quello di non saper uscire dal proprio guscio culturale e misurare l’estero con un metro che non gli è proprio: (non) vedere la differenza sotto (le) apparenze uguali e non vedere l’identità sotto le diverse apparenze.
I titoli
Tendenza a titoli magniloquenti e pedanteschi, con opposta reazione di titoli così detti “giornalistici” cioè anodini e insignificanti. Difficoltà dell’arte dei titoli che dovrebbero riassumere alcune esigenze: di indicare sinteticamente l’argomento centrale trattato, di destare interesse e curiosità spingendo a leggere. Anche i titoli sono determinati dal pubblico al quale il giornale si rivolge e dall’atteggiamento del giornale verso il suo pubblico: atteggiamento demagogico-commerciale quando si vuole sfruttare le tendenze più basse; atteggiamento educativo-didattico, ma senza pedanteria, quando si vuole sfruttare il sentimento predominante nel pubblico, come base di partenza per un suo elevamento. Il titolo “Brevi cenni sull’universo”, come caricatura del titolo pedantesco e pretenzioso.
La cronaca giudiziaria
Si può osservare che la cronaca giudiziaria dei grandi giornali è redatta come un perpetuo “Mille e una notte” concepito secondo gli schemi del romanzo d’appendice. C’è la stessa varietà di schemi sentimentali e di motivi: la tragedia, il dramma frenetico, l’intrigo abile e intelligente, la farsa. Il Corriere della Sera non pubblica romanzi d’appendice: ma la sua pagina giudiziaria ne ha tutte le attrattive, con in più la nozione, sempre presente, che si tratta di fatti veri.
Rubriche scientifiche
Il tipo italiano del giornale quotidiano è determinato dall’insieme delle condizioni organizzative della vita culturale del paese: mancanza di una vasta letteratura di divulgazione, sia attraverso il libro che la rivista. Il lettore del giornale vuole perciò trovare nel suo foglio un riflesso di tutti gli aspetti della complessa vita sociale di una nazione moderna. E‘ da rilevare il fatto che il giornale italiano, relativamente meglio fatto e più serio che in altri paesi, abbia nel paese trascurato l’informazione scientifica, mentre esisteva un corpo notevole di giornalisti specializzati per la letteratura economica, letteraria ed artistica. Anche nelle riviste più importanti (come la Nuova Antologia e la Rivista d’Italia) la parte dedicata alle scienze era quasi nulla (oggi le condizioni sono mutate da questo punto di vista e il Corriere della Sera ha una serie di collaboratori, specializzati nelle quistioni scientifiche, molto notevole). Sono sempre esistite riviste scientifiche di specialisti, ma mancavano le riviste di divulgazione (è da vedere l’Arduo che usciva a Bologna diretto da S. Timpanaro; molto diffusa la “Scienza per tutti” della Casa Sonzogno, ma per un giudizio di essa basta ricordare che fu diretta per molti anni da… Massimo Rocca).
L’informazione scientifica dovrebbe essere integrante di qualsiasi giornale italiano, sia come notiziario scientifico-tecnologico, sia come esposizione critica delle ipotesi e opinioni scientifiche più importanti (la parte igienico-sanitaria dovrebbe costituire una rubrica a sé). Un giornale popolare, più degli altri, dovrebbe avere questa sezione scientifica, per controllare e dirigere la cultura dei suoi lettori, che spesso è “stregonesca” o fantastica e per “sprovincializzare” le nozioni correnti.
Difficoltà di avere specialisti che sappiano scrivere popolarmente: si potrebbe fare lo spoglio sistematico delle riviste generali e speciali di cultura professionale, degli atti delle Accademie, delle pubblicazioni straniere e compilare estratti e riassunti in appendici speciali, scegliendo accuratamente e con intelligenza delle esigenza culturali del popolo, gli argomenti e il materiale.
Almanacchi
Poiché il giornalismo è stato considerato, nelle note ad esso dedicate, come esposizione di un gruppo che vuole, attraverso diverse attività pubblicistiche, diffondere una concezione integrale del mondo, si può prescindere dalla pubblicazione di un almanacco? L’almanacco è, in fondo, una pubblicazione periodica annuale, in cui, anno per anno, si esamina l’attività storica complessa di un anno da un certo punto di vista. L’almanacco è il “minimo” di “pubblicità” periodica che si può dare alle proprie idee e ai propri giudizi sul mondo e la sua varietà mostra quanto nel gruppo si sia venuto specializzando ogni singolo momento di tale storia, così come la organicità mostra la misura di omogeneità che il gruppo è venuto acquistando. Certo, per la diffusione, occorre che l’almanacco tenga conto di determinati bisogni del gruppo di compratori cui si rivolge, gruppo che non può, spesso, spendere due volte, per uno stesso bisogno. Occorrerà pertanto scegliere il contenuto: 1) quelle parti che rendono inutile l’acquisto di altro almanacco; 2) quella parte per cui si vuole influire sui lettori per indirizzarli secondo un senso prestabilito. La prima parte sarà ridotta al minimo: a quanto basta per soddisfare il bisogno dato. La seconda parte insisterà su quegli argomenti che si ritengono di maggior peso educativo e formativo.
Napoleone III
Ciò che Napoleone III disse del giornalismo durante la sua prigionia in Germania al giornalista inglese Mels-Cohn (cfr Paul Guériot, La captivité de Napoléon III en Allemagne, pp.250, Parigi, Perrin). Napoleone avrebbe voluto fare del giornale ufficiale un foglio modello, da mandare gratuitamente a ogni elettore, con la collaborazione delle penne più illustri del tempo e con le informazioni più sicure e più controllate da ogni parte del mondo. La polemica, esclusa, sarebbe rimasta confinata nei giornali particolari ecc.
La concezione del giornale di Stato è logicamente legata alle strutture governative illiberali (cioè a quelle in cui la società civile si confonde con la società politica), siano esse dispotiche o democratiche (ossia in quelle in cui la minoranza oligarchica pretende essere tutta la società, o in quelle in cui il popolo indistinto pretende e crede di essere veramente lo Stato). Se la scuola è di Stato, perché non sarà di Stato anche il giornalismo, che è la scuola degli adulti?
Napoleone argomentava partendo dal concetto che se è vero l’assioma giuridico che l’ignoranza delle leggi non è scusa per l’imputabilità, lo Stato deve gratuitamente tenere informati i cittadini di tutta la sua attività, deve cioè educarli: argomento democratico che si trasforma in giustificazione dell’attività oligarchica. L’argomento però non è senza pregio: esso può essere “democratico” solo nelle società in cui la unità storica di società civile e società politica è intesa dialetticamente (nella dialettica reale e non solo concettuale) e lo Stato è concepito come superabile dalla “società regolata”: in questa società il partito dominante non si confonde organicamente col governo, ma è strumento per il passaggio dalla società civile-politica alla “società regolata”, in quanto assorbe in sé ambedue, per superarle (non per perpetuarne la contraddizione), ecc.
A proposito del regime giornalistico sotto Napoleone III, ricordare l’episodio del prefetto di polizia che ammonisce un giornale perché in un articolo sui concimi non era fissato risolutamente quale concime era il migliore: ciò, secondo il prefetto, contribuiva a lasciare nella incertezza il pubblico ed era perciò biasimevole e degno di richiamo da parte della polizia.
Movimenti e centri intellettuali
E’ dovere dell’attività giornalistica (nelle sue varie manifestazioni) seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese. Tutti. Cioè con l’esclusione appena di quelli che hanno un carattere arbitrario e pazzesco; sebbene anche questi, col tono che si meritano, devono essere per lo meno registrati. Distinzione tra centri e movimenti intellettuali e altre distinzioni e graduazioni. Per esempio il cattolicismo è un grande centro e un grande movimento: ma nel suo interno esistono movimenti e centri parziali che tendono a trasformare l’intero, o ad altri fini più concreti e limitati e di cui occorre tener conto. Pare che prima di ogni altra cosa occorra “disegnare” la mappa intellettuale e morale del paese, cioè circoscrivere i grandi movimenti d’idee e i grandi centri (ma non sempre ai grandi movimenti corrispondo grandi centri, almeno coi caratteri di visibilità e di concretezza che di solito si attribuisce a questa parola e l’esempio tipico è il centro cattolico). Occorre poi tener conto delle spinte innovatrici che si verificano, che non sempre sono vitali, cioè hanno una conseguenza, ma non perciò devono essere meno seguite e controllate. Intanto all’inizio un movimento è sempre incerto, di avvenire dubbio, ecc.; bisognerà attendere che abbia acquistato tutta la sua forza e consistenza per occuparsene? Neanche è necessario che esso sia fornito delle doti di coerenza e di ricchezza intellettuale: non sempre sono i movimenti più coerenti ed intellettualmente ricchi quelli che trionfano. Spesso anzi un movimento trionfa proprio per la sua mediocrità ed elasticità logica: tutto ci può stare, i compromessi più vistosi sono possibili e questi appunto possono essere ragioni di trionfo. Leggere le riviste dei giovani oltre quelle che si sono già affermate e rappresentano interessi seri e ben certi. Nell’Almanacco letterario Bompiani del 1933 sono indicati i programmi essenziali di sei riviste di giovani che dovrebbero rappresentare le spinte di movimento della nostra cultura: Il Saggiatore, Ottobre, Il Ventuno, L’Italia vivente, L’Orto, Espero che non paiono molto perspicue, eccetto forse qualcuna. L’Espero per esempio, “per la filosofia” si propone “di ospitare i postidealisti, che eseguiscono un’attenta critica dell’idealismo, e quei soli idealisti che sanno tener conto di tale critica”. Il direttore di Espero è Aldo Capasso, ed essere postidealista è qualcosa come essere “contemporaneo”, cioè proprio nulla. Più chiaro, anzi forse il solo chiaro, è il programma di Ottobre. Tuttavia tutti questi movimenti sarebbero da esaminare, snobismo a parte.
Distinzione tra movimenti militanti, che sono i più interessanti, e movimenti di “retroguardia” o di idee acquisite e divenute classiche o commerciali. Tra questi dove mettere l’Italia Letteraria? Non certo militante e neppure classica! Sacco di patate mi pare proprio la definizione più esatta ed appropriata.
Dissensi interni di partito attraverso la collaborazione a giornali di altra tendenza
Quando il deputato di un movimento popolaresco parla in Parlamento (e un senatore al Senato) ci possono essere tre o più versioni del suo discorso: 1) la versione ufficiale degli Atti parlamentari, che di solito è riveduta e corretta e spesso edulcorata post festum; 2) la versione dei giornali ufficiali del movimento al quale il deputato appartiene ufficialmente: essa è combinata dal deputato d’accordo col corrispondente parlamentare, in modo da non urtare certe suscettibilità o della maggioranza ufficiale del partito o dei lettori locali e non creare ostacoli prematuri a determinate combinazioni in corso o desiderate; 3) la versione dei giornali di altri partiti o dei così detti organi della pubblica opinione (giornali a grande diffusione) che è fatta dal deputato d’accordo coi rispettivi corrispondenti parlamentari in modo da favorire determinate combinazioni in corso: tali giornali possono mutare da (un) periodo all’altro a seconda dei mutamenti avvenuti nelle rispettive direzioni politiche o nei governi. Lo stesso criterio può essere esteso al campo sindacale, a proposito dell’interpretazione da dare a determinati eventi o anche all’indirizzo generale della data organizzazione sindacale. Per esempio: la Stampa, il Resto del Carlino, il Tempo (di Naldi) hanno servito, in certi anni, da casse di risonanza e da strumenti di combinazioni politiche tanto ai cattolici come ai socialisti. Un discorso parlamentare (o uno sciopero, o una dichiarazione di un capo sindacale) socialista o popolare, era presentato sotto una certa luce da questi giornali per il loro pubblico, mentre era presentato sotto altra luce dagli organi cattolici o socialisti. I giornali popolari e socialisti tacevano addirittura al loro pubblico certe affermazioni di rispettivi deputati che tendevano a rendere possibile una combinazione parlamentare-governativa delle due tendenze, ecc. ecc. E’ indispensabile anche tener conto delle interviste date dai deputati ad altri giornali e degli articoli pubblicati in altri giornali. L’omogeneità dottrinale e politica di un partito può anche essere saggiata con questo criterio: quali indirizzi sono favoriti dai soci di questo partito nella loro collaborazione ai giornali di altra tendenza o così detti di opinione pubblica: talvolta i dissensi interni si manifestano solo così, i dissidenti scrivono, in altri giornali, articoli firmati o non firmati, danno interviste, suggeriscono motivi polemici, si fanno provocare per essere “costretti” a rispondere, non smentiscono certe opinioni loro attribuite ecc.
I lettori
I lettori devono essere considerati da due punti di vista principali: 1) come elementi ideologici, “trasformabili” filosoficamente, capaci, duttili, malleabili alla trasformazione; 2) come elementi “economici”, capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri. I due elementi, nella realtà, non sono sempre distaccabili, in quanto l’elemento ideologico è uno stimolo all’atto economico dell’acquisto e della diffusione. Tuttavia, occorre nel costruire un piano editoriale, tenere distinti i due aspetti, perché i calcoli siano realisti e non secondo i propri desideri. D’altronde, nella sfera economica, le possibilità non corrispondono alla volontà e all’impulso ideologico e pertanto occorre predisporre perché sia data la possibilità dell’acquisto “indiretto”, cioè compensato con servizi (diffusione). Un’impresa editoriale pubblica tipi diversi di riviste e libri, graduati secondo livelli diversi di cultura. E’ difficile stabilire quanti “clienti” possibili esistano di ogni livello. Occorre partire dal livello più basso e su questo si può stabilire il piano commerciale “minimo”, cioè il preventivo più realistico, tenendo conto tuttavia che l’attività può modificare (e deve modificare) le condizioni di partenza non solo nel senso che la sfera della clientela può (deve) essere allargata, ma che può (deve) determinarsi una gerarchia di bisogni da soddisfare e quindi di attività da svolgere. E’ osservazione ovvia che le imprese finora esistite si sono burocratizzate, cioè non hanno stimolato i bisogni e organizzato il loro soddisfacimento, per cui è spesso avvenuto che l’iniziativa individuale caotica ha dato migliori frutti dell’iniziativa organizzata. La verità era che in questo secondo caso non esisteva “iniziativa” e non esisteva “organizzazione” ma solo burocrazia e andazzo fatalistico. Spesso la così detta organizzazione invece di essere un potenziamento di sforzi era un narcotico, un deprimente, addirittura un ostruzionismo o un sabotaggio. D’altronde non si può parlare di azienda giornalistica ed editoriale seria se manca questo elemento: l’organizzazione del cliente della vendita, che essendo un cliente particolare (almeno nella sua massa) ha bisogno di una organizzazione particolare, strettamente legata all’indirizzo ideologico della “merce” venduta. E’ osservazione comune che in un giornale moderno il vero direttore è il direttore amministrativo e non quello redazionale.