Metti un po’ di coach nel manager

E’ un’arte difficile la guida degli uomini e delle donne in un’impresa. Si mescolano attitudini al comando e capacità di empatia. Il più grande dei condottieri, Alessandro Magno, comandava con l’esempio. Era sempre alla testa dei suoi militi e il primo nello scontro frontale con il nemico. Alessandro era capace di indulgenze, ma non sopportava di essere contraddetto, nemmeno dai suoi generali, soprattutto se non avevano chiara, come l’aveva lui, l’idea della battaglia. Per un accesso d’ira uccise con una lancia uno dei suoi amici più cari, Clito.

Luca Varvelli

Luca Varvelli

Ai manager, per fortuna, non è richiesto di conquistare tutto il mondo conosciuto, né è permesso l’uso delle lance. Un manager deve avere il senso delle proporzioni. In un vecchio manuale scritto dal prelato francese Gastone Courtois, “L’arte di essere capo”, si suggerisce di non rendere grottesca la propria autorità: “La maggior disgrazia per un capo è la posa di parlare e di comportarsi da capo”. Per misurare le doti di un manager, dice il sociologo Francesco Alberoni, basta soppesare le qualità dei suoi collaboratori: più sono mediocri, più il manager è mediocre. I manuali che indicano la via maestra ai manager che vogliono migliorare se stessi, contengono anche ricette spietate, spesso ammantate di virtù. In una guida per la “organizzazione perfetta” scritta da un dirigente d’azienda che trae ispirazione dalla regola benedettina, si consiglia al manager la “regola del silenzio” applicata alla gestione delle risorse umane. Se un dipendente ti scrive, ti interpella, chiede spiegazioni e ti inonda di e-mail, non gli rispondere! Il manager non solo deve pesare le parole ma deve “creare” il silenzio intorno a sé, questo il consiglio. Più che regola del silenzio si tratta di un’arma: l’arma dell’oblio. E’ una ricetta che, naturalmente, non ci piace, a meno che il dipendente non sia un inguaribile disturbatore che reclama diritti senza avere alcun senso del dovere.

Laura Arman Varvelli

Laura Arman Varvelli

Torniamo allora ad Alberoni, che nel suo “L’arte del comando” fissa una regola etica che ci piace: “Il leader è, prima di tutto, il custode della meta, colui che ricorda e indica a tutti dove si deve andare, e controlla che la rotta venga tenuta. Egli deve trasmettere, a ogni livello dell’organizzazione, il senso della missione, il significato del compito e il senso del dovere. E, per farlo, deve crederci profondamente. Nessuno trasmette modelli se non li pratica personalmente. Se non dà l’esempio. E’ con la sua energia, con la sua fede, con il suo esempio, creando simpatia, fiducia, entusiasmo nei collaboratori, che li porta naturalmente a mettere a frutto tutte le loro energie e la loro intelligenza.”

Lo sforzo del manager di portare il gruppo, tutto il gruppo, a centrare l’obbiettivo, in fondo è anche “politica”. Citiamo Don Milani dalla celebre “Lettera a una professoressa”: “Insegnando imparavo tante cose. Per esempio ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Il bravo manager non deve macchiarsi di “avarizia” quando motiva e trascina il gruppo, deve temperare il suo efficientismo con un po’ di empatia, deve provare a coinvolgere, a includere, e deve essere anche un po’ maestro, un po’ allenatore, un po’ coach. Ma in che misura il manager deve essere anche un po’ coach? Quel po’ si può quantificare?

4 TrainingLo abbiamo chiesto al Gruppo Varvelli, il gruppo che, con base a Torino, è specializzato da decenni nella ricerca applicata al management e nella diretta formazione dei manager (preziosi i loro corsi e i loro manuali pubblicati per le edizioni de “Il Sole 24 Ore”), e che di recente ha anche messo a punto una App chiamata “4 Training”, una sorta di “integratore energetico (così la definiscono) di consigli, ricette, frasi, citazioni, video e test per costruire la propria personale strada verso il successo e il potenziamento delle proprie capacità”.

Qui di seguito Luca e Laura Varvelli, seconda generazione del gruppo Varvelli, ci danno le misure e rispondono alla nostra domanda: sì, c’è una percentuale di “valore” che il manager può “spostare” dal management al coaching senza perdita di rendimento. Anzi, con profitto.

 

 

di Luca e Laura Varvelli

C’è differenza fra “fare il coach” e “fare il manager”? La differenza già si legge nella definizione del ruolo.
Il “coach” (in italiano: l’allenatore) è colui che dedica tutto (o quasi tutto) il suo tempo alla buona tenuta sul campo degli uomini (o delle donne) che gli sono stati assegnati (o che egli ha scelto personalmente per vincere la sfida).

Li conosce uno a uno; è al corrente delle loro problematiche personali e professionali; egli sa che il suo primo obiettivo, prima ancora di vincere la sfida sul campo è quello di ottenere una buona integrazione fra caratteri diversi, fra personalità diverse, fra culture diverse.

Egli è rispettato perché, per la sua storia e per i suoi atteggiamenti, ha autorevolezza nella gestione del fattore umano (egli sa motivare) e nella conoscenza dei metodi e delle tecniche specifiche che devono essere praticate (egli sa insegnare).

Il “coach” vive costantemente a fianco dei suoi uomini (e delle sue donne); rispetta le singole specializzazioni e professionalità e non si sostituisce mai agli specialisti ed ai professionisti nel loro operare quotidiano.

Il “buon allenatore” è colui che riceve l’incarico di allenare un gruppo di individui ognuno con un suo rendimento base e che sa che nell’arco di un tempo prestabilito deve portarli ad un rendimento maggiorato.

Attraverso il miglioramento della loro prestazione e all’aumento della loro motivazione e convinzione al ruolo vincerà la sfida.

Il “manager” (dal latino: “manus agere” che tradotto in italiano corrisponde a: “maneggione”) è colui che dedica tutto (o quasi tutto) il suo tempo alla gestione economica delle risorse che gli sono state affidate e che sono, di volta in volta, con importanza diversa: le persone, il materiale, i macchinari e il denaro.

Il suo primo obiettivo è quello di raggiungere i risultati economici di budget (che talvolta gli vengono assegnati senza sentire il suo parere) integrando fra di loro le risorse disomogenee a sua disposizione. Per quanto riguarda le persone talvolta deve prescindere dall’uniformare e omogeneizzare le differenze interculturali esistenti.

Egli è rispettato perché ha autorità formale e istituzionale. Egli comanda e ottiene (se è un buon capo) ubbidienza anche se le persone che dipendono da lui (e che quasi sempre non ha scelto) non sono convinte e motivate per quello che devono fare.

Il manager non può vivere costantemente a fianco dei suoi collaboratori perché frequentemente è impegnato in riunioni e in incontri con la direzione. Per questa ragione viene a conoscere poco dei problemi personali e famigliari dei suoi collaboratori.

Egli conosce invece bene le problematiche professionali poiché egli stesso ha contribuito a definire le caratteristiche di ruolo di ogni posizione organizzativa a lui afferente. Non rispetta talvolta tali caratteristiche modificando occasionalmente in base alle urgenze le mansioni dei collaboratori sostituendosi nei momenti più critici a essi.

Egli è cosciente che l’ottimizzazione economica del sistema a lui afferente non deriva dalla ottimizzazione dei singoli contributi ma da una costante mediazione fra esigenze disparate, danneggiando talvolta il contributo dei suoi specialisti e dei suoi professionisti e vantaggio dell’obiettivo da raggiungere.

Dovendo garantire il rispetto delle urgenze del lavoro quotidiano in chiave economica egli si sostituisce ai suoi dipendenti in maniera non sempre esauriente ed efficace. Per questa ragione il “manager” diventa un impiegato in più (e non sempre il migliore).
Se il “coach” dedica almeno l’80% del suo tempo alla cura dei suoi uomini (e delle sue donne), il “manager” non ne dedica normalmente più del 20%.

Chiedere a un “manager” di diventare “coach” è pertanto impensabile; come è impensabile chiedere ad un “coach” di gestire le persone a lui assegnate con finalità prettamente economiche.

Ma è possibile chiedere al “manager” che dedica un quinto del suo tempo alla gestione della sua risorsa umana, di passare dal 20% al 30%. Quel 10% di maggiore impegno gli verrà ripagato ampiamente in termini economici e temporali da una maggiore resa nell’uso del materiale, dei macchinari e del denaro da parte dei suoi collaboratori.
Essere un po’ meno “manager” e un po’ più “coach” è possibile (ed è anche conveniente).